Corriere della Sera, 17 novembre 2015
Storia di Abu Umar, il reclutatore
DALLA NOSTRA INVIATA
BRUXELLES L’immagine che lancia l’intervista lo mostra sorridente, tenuta militare, giubbino antiproiettile e solito kalashnikov in vista. «Allah li ha resi ciechi» racconta lui. «C’era la mia fotografia ovunque. Sono stato fermato da un agente che mi ha guardato bene per compararmi alla foto ma mi ha lasciato andare perché non gli sono sembrato somigliante. Questo non è altro che un regalo di Allah».
Lo chiamano Abu Umar, qualcuno lo conosce come «il belga». Il suo nome è Abdelhamid Abaaoud, 27 anni, origini marocchine ma di Molenbeek, il quartiere-ghetto con la più alta concentrazione di estremisti islamici d’Europa.
È lui, secondo fonti ufficiali francesi, la mente della carneficina di Parigi. Lui avrebbe coordinato i tre gruppi di fuoco dalla Siria, lui avrebbe indottrinato gli aspiranti al martirio e, se gli inquirenti hanno ragione, potrebbe essere lui stesso, prima o poi, a rivelare i dettagli degli attacchi. Come ha fatto con l’intervista rilasciata a una rivista online dell’Isis dopo la sparatoria del 15 gennaio scorso a Verviers. La propaganda del Califfato prevede soltanto toni trionfali e lui, che dal 2013 è uno dei capi militari in primo piano nella diffusione di immagini e dottrina, si adegua. Anche se «l’attacco ai crociati» di Verviers in realtà fallisce.
Abu Umar e due «fratelli scelti da Allah» volevano fare strage di poliziotti in Belgio ma una serie di intercettazioni nelle settimane che precedettero l’attacco misero sulla pista giusta gli inquirenti e gli uomini dell’antiterrorismo individuarono il covo jihadista a Verviers. Durante la sparatoria che ne seguì due terroristi rimasero uccisi, Abu Umar invece riuscì a fuggire. Lo seguirono i servizi segreti di tutt’Europa, lo intercettarono anche gli americani e fu segnalato un suo passaggio in Turchia ma poi più nulla, fino alle parole dalla rivista online. «Sono riuscito a partire anche se avevo addosso tutte le agenzie di intelligence» racconta Abu Umar il belga. Si vanta di poter andare e venire dall’Europa quando vuole e invita i musulmani a non temere «l’intelligence dei crociati».
Nessuno sa dire esattamente quando e come Abu Umar sia riuscito quella volta a lasciare il territorio belga, né ci sarebbero riscontri al suo racconto sull’agente che non lo avrebbe riconosciuto. Quel che sembra certo è che lui adesso si trovi in Siria e che da lì abbia organizzato, appunto, gli attacchi di venerdì. Magari accanto a Younes, il fratello minore – 13-14 anni – che ha portato in Siria con sé e che compare accanto a lui in alcuni video e fotografie usate dal Califfato per fare propaganda.
Cervello degli assalti ma anche uomo d’immagine contro gli infedeli dell’Occidente. Dal 2013 a oggi Abu Umar cresce di ruolo proprio grazie al fatto che in qualche modo usa se stesso per la causa dell’Isis. Lo fa con i proclami delle interviste o quelli lanciati via web, con le fotografie che lo ritraggono con i «fratelli scelti da Allah» per gli attentati, lo fa con il video in cui lo si vede trascinare il corpo di un nemico crociato.
Il piano propagandistico, valutano gli esperti dell’antiterrorismo internazionale, sicuramente fa parte dei suoi compiti. È un referente degli aspiranti jihadisti sia sul piano dell’indottrinamento sia su quello militare.
Gli inquirenti francesi non diffondono dettagli sui motivi che legano il suo nome al massacro di venerdì sera a Parigi ma di sicuro c’entra il quartiere di Molenbeek, dal quale venivano alcuni dei kamikaze saltati in aria negli assalti della settimana scorsa. Molenbeek è il luogo in cui lui è cresciuto e da dove suo padre ha provato inutilmente a lanciare appelli perché tornasse, assieme al figlio più piccolo. Molenbeek è stata l’incubatrice del suo radicalismo, il ghetto musulmano di Bruxelles dal quale ha visto partire ragazzi giovani e giovanissimi come lui per la Siria, il quartiere che lui stesso ha visto diventare la base logistica di jihadisti. E dove però oggi tutti negano di averlo mai conosciuto. Il suo nome è off-limits, inutile chiedere notizie sul suo conto o sulla sua famiglia.
A Molenbeek Abu Umar è stato in contatto con Salah Abdeslam, il super ricercato legato alle stragi parigine e fratello di uno dei kamikaze morti. Assieme a Salah, Abu Umar fu arrestato nel 2010 per rapina e avrebbe avuto contatti con altri radicali islamici vicini ai tre commando di Parigi. Non solo. Nel giro delle persone che in qualche modo avrebbero avuto a che fare con lui ci sarebbe anche Mehdi Memmouche, l’attentatore del museo ebraico di Bruxelles nell’aprile del 2014. Sospetti sul di lui o su un suo possibile ruolo anche nel fallito attacco contro una chiesa, sempre in Belgio, ad aprile di quest’anno. E poi ancora una volta il suo nome spunta nelle indagini sull’attentatore del treno Thalys fermato in tempo da due americani.
Lui e ancora lui ogni volta che c’è un attacco terroristico in Belgio. Tanto frequente, il suo nome, da far pensare agli investigatori che abbia avuto dal Califfato il compito preciso di gestire i gruppi in azione in Belgio e Francia. Gruppi probabilmente indottrinati da lui stesso o ai quali lui darebbe indicazioni sulle modalità di assalto, sulla divisione dei gruppi di fuoco e sui luoghi da colpire. Gli uomini dell’antiterrorismo sono convinti che nei suoi video e nei suoi proclami online lui parli ai militanti dei due Paesi perché sarebbe il loro referente dalla Siria. E nel farlo Abu Umar mostra spesso i bambini, li chiama «piccoli leoni», li esorta alla lotta contro gli infedeli, a imbracciare i kalashnikov, a combattere e a «uccidere senza paura». Perché «come si sa» – spiega via Internet Abu Umar il belga – «il Belgio è uno dei Paesi della coalizione dei crociati che attacca i musulmani».