La Domenica del Sole 24 Ore, 15 novembre 2015
Tre scenari e una proposta per una crescita forte ed equilibrata
Come siamo arrivati alla crisi? A mio modo di vedere, una politica monetaria basata su una teoria debole ha dato un importante contributo in questa direzione. La teoria debole è, sostanzialmente, quella secondo cui la crescita inadeguata e l’insufficiente creazione di posti di lavoro sarebbero dovute esclusivamente a una domanda inadeguata, a cui si può porre rimedio con una politica monetaria espansiva.
Questa teoria è stata testata per la prima volta agli inizi degli anni 1960, quando la gente ancora credeva che ci fosse una specie di compensazione sul lungo periodo tra disoccupazione e inflazione. Ma un effetto collaterale grave dello stimolo monetario si è ben presto manifestato. Quello che ci si aspettava fosse un “leggero” aumento dell’inflazione si è trasformato nella soffocante pressione inflazionistica degli anni 1970, così come previsto da Friedman (1968) e Phelps (1968). La politica monetaria di Volcker dei primi anni 1980 cercava di affrontare proprio questo problema, ma la tendenza al ricorso all’allentamento monetario come panacea di tutti i mali è presto riemersa.
La politica monetaria nota come “Greenspan put”, attuata a seguito del crollo delle borse nel 1987, è stata seguita da simili episodi di allentamento monetario spinto nel 1991, 1998 e 2001. Queste politiche non sono mai state compensate da politiche più restrittive nel momento in cui l’economia riprendeva. Quindi, nel corso degli anni, i tassi di interesse nominale hanno finito per ridursi in maniera importante.
Secondo me, ogni decisore politico di rilievo è stato sedotto dal fascino dell’inazione a seguito di preconcetti di comodo, ognuno dei quali sappiamo essere oggi infondato. I banchieri centrali credevano che con l’inflazione sotto controllo, tutto sarebbe andato bene. Quindi, in caso di problemi, la politica monetaria avrebbe potuto tranquillamente risolverli. Gli enti regolatori credevano che se le singole istituzioni avessero goduto di buona salute, l’intero sistema lo sarebbe stato di conseguenza. I banchieri e altri creditori credevano che gli ampi profitti che traevano fossero dovuti al loro talento (alfa) e non all’assunzione del rischio (beta). Per questo sono diventati sempre più intrepidi. I debitori a loro volta erano convinti che i prezzi delle abitazioni e di altri asset finanziari fossero inevitabili. Anche i governi sono caduti nella trappola e, convinti che il vivace gettito fiscale fosse strutturale e non ciclico, lo hanno speso immediatamente. In conclusione, l’economia non è una macchina, ma il prodotto di agenti umani che interagiscono tra di loro, ognuno altamente dipendente a questa o quella caratteristica della nostra natura. Cerchiamo conforto dove lo troviamo.
A questo punto quali scenari ci attendono?
Scenario uno: debito monstre
e crescita ancora più lenta
Una possibilità è che lo scenario corrente di una crescita globale relativamente lenta continui o addirittura la veda rallentare ulteriormente nel caso in cui il fronte del debito aumentasse. In questo caso sia i tassi di riferimento, sia i tassi liberi sul più lungo periodo rimarrebbero molto bassi. Tuttavia, in questo contesto i prezzi attuali delle equity e i risk spread verrebbero visti sempre più come non realistici. La conseguente diminuzione importante dei prezzi di questi asset finanziari scoraggerebbe molti speculatori, il che potrebbe, potenzialmente, fare ancor più danni ai sistemi bancari nei Paesi già colpiti dalla crisi. Le economie avanzate non colpite dalla crisi, in cui il debito delle famiglie e i prezzi dei beni immobiliari hanno continuato a salire dal 2007 in poi, potrebbero essere, invece, duramente colpite. Comunque le banche di tutto il mondo saranno indebolite da una lenta crescita che aumenterà il numero di prestiti non performanti. Sia la domanda sia l’offerta di credito rimarrebbero quindi particolarmente passive.
In questo contesto, l’attuale basso tasso dell’inflazione nelle economie avanzate sembra ridursi ancor di più. Una pericolosa deflazione del debito del tipo teorizzato da Fisher potrebbe emergere molto facilmente, facendo crollare i prezzi e incrementando il peso reale del servizio del debito. Si potrebbero radicare sempre più le previsioni di una deflazione, con ulteriori effetti negativi sulla spesa corrente. Stanti le tendenze di cui sopra (che portano a un’uscita ritardata dalla crisi), un uso ancor più aggressivo della politica monetaria potrebbe essere la sola opzione per far fronte alla situazione con i bilanci delle banche centrali che si espandono ulteriormente.
Da una parte, questa politica riuscirebbe finalmente a incentivare la spesa e l’espansione dell’economia reale, evitando così aspettative deflazionistiche. Non si può, infatti, asserire che la timida reazione della spesa allo stimolo monetario sia stata dovuta semplicemente a uno stimolo troppo debole. Dall’altra, è anche possibile che questa misura sfugga di mano. Un’ulteriore espansione monetaria potrebbe causare un’impennata delle aspettative inflazionistiche con una conseguente contrazione della domanda sia in termini di base monetaria, sia di più ampi stock monetari. Mentre la domanda per asset reali crescerebbe, gli effetti sulla produzione attuale di livelli significativamente più alti di inflazione sono più difficili da prevedere, ma potrebbero facilmente essere negativi.
Un’accelerazione repentina del processo inflazionistico si verificherebbe con maggiori probabilità in quei Paesi dove sia il deficit sia il debito del governo sono molto consistenti. Qui i Governi devono acquistare credito, ma potrebbero non avere un finanziamento privato sufficientemente adeguato. Questo aumenterebbe le aspettative di una dominanza fiscale che eroderebbe sempre più la domanda di titoli di Stato da parte del settore privato. Bernholz (2006) ha sottolineato come tali processi, che portano potenzialmente a una iperinflazione, non sono inusuali nel corso della storia. Certi esiti corrisponderebbero a quelli descritti nel celebre articolo di Sargent e Wallace (1981). Al momento, il Giappone è il Paese che deve essere più considerato in questa ottica.
Scenario due: il mercato
mantiene i nervi saldi
e il debito cala
Un secondo possibile scenario potrebbe avere un finale più felice, anche se non è garantito. Supponiamo che si verifichi nell’economia globale una crescita sensibilmente più veloce e che i mercati dei bond reagiscano in maniera ordinata. In questo contesto, la politica monetaria potrebbe iniziare a essere più restrittiva e i tassi bassi dei bond crescerebbero solo lentamente. Idealmente crescerebbero meno del tasso (in crescita) di crescita reale. Questo implica una riduzione graduale del peso del debito sul lungo termine. In questo mondo gli attuali alti prezzi dei capitali propri e gli austeri spread del rischio potrebbero essere valutati in maniera particolarmente generosa, ma fondamentalmente sarebbero giustificati solo da prospettive di crescita future.
Perché questo scenario abbia luogo è anche necessario che le banche centrali, nonostante la strategia di uscita summenzionata, non commettano errori importanti in materia di controllo dell’inflazione. Se l’inflazione e le aspettative inflazionistiche dovessero crescere in questo scenario di crescita più rapida, una risposta monetaria ritardata porterebbe alla recessione, come è avvenuto spesso nel secondo dopoguerra. In questo caso, si tornerebbe al primo scenario, che non è quello che vogliamo. Il rischio di un tale errore politico (uscire troppo tardi) non è significativo. Orphanides (2001) ha dimostrato quanto sia difficile calcolare gli output gaps sulla base di dati in tempo reale. Borio et al. (2013) dimostrano che questo è ancor più difficile all’alba di un boom finanziario, che genera false aspettative circa un potenziale elevato.
Scenario tre: il mercato
impazzisce i tassi salgono
e il debito cresce
Un terzo scenario è una variante del secondo. Continuiamo a supporre che una crescita sensibilmente più rapida si verifichi nell’economia globale, ma che i mercati dei bond reagiscano in maniera disordinata. Questo porterebbe i tassi a lungo termine a salire più velocemente rispetto a un tasso di crescita (previsto in crescita) dell’economia reale. Questo comporterebbe un servizio del debito più oneroso e non meno oneroso. Questo scenario potrebbe verificarsi per numerose ragioni.
La prima è che se azioni inconsuete delle banche centrali riuscissero a tenere i tassi dei bond bassi, come suggerito sopra, l’insuccesso di tali politiche potrebbe invertire i risultati. Si potrebbe velocemente sviluppare una spinta, con eccessi che nei mercati finanziari non sono rari. Una seconda ragione è che gli investitori del settore privato sono stati anch’essi incoraggiati dalle banche centrali a puntare sul lungo rischio e la breve volatilità. Una corsa verso l’uscita potrebbe avere effetti significativi su entrambi. Una terza ragione è che un trading di tipo stabilizzato potrebbe essere frenato dalla mancanza di pegni, attualmente vincolati in diversi modi dalle recenti modifiche all’apparato normativo (come per esempio lo scambio di derivati) e dall’espansione dei bilanci delle banche centrali. Inoltre, a seguito di nuovi oneri sul capitale, il ventaglio di titoli rischiosi dei broker (in particolare i titoli aziendali) è molto ridotto rispetto a prima della crisi. Una quarta ragione è che se quello che è accaduto nelle economie avanzate ha portato dei flussi in uscita di capitale dalle economie emergenti, le vendite dei manager delle riserve eserciterebbero molta più pressione verso il basso sui prezzi dei bond nelle economie avanzate.
In questo caso, i tassi dei bond più alti e il crollo finanziario connesso porterebbero al fallimento della ripresa nelle economie avanzate nonostante un allentamento ulteriore da parte delle banche centrali, volto a evitare che questo accada. I flussi in uscita di capitale dalle economie emergenti porterebbero allo stesso esito. Anche supponendo che l’inflazione e le aspettative inflazionistiche non siano riviste al rialzo da un allentamento monetario ancor più aggressivo, torneremmo al primo scenario, che di certo non vogliamo.
Il mio consiglio: i governi
riprendano in mano le redini
Gli scenari di cui sopra sono storie, non previsioni. Tuttavia essi prospettano alcuni dei grossi rischi che corriamo nell’affidarci totalmente alla capacità delle banche centrali di ripristinare una crescita forte. Se ciò dovesse accadere – situazione abbastanza improbabile – è difficile che sia “equilibrata o sostenibile”. Più efficaci sarebbero altre misure politiche che in prima istanza riconoscano che il problema fondamentale è quello del debito eccessivo e della possibile insolvenza. Tali problemi devono essere risolti dai governi e non dalle banche centrali. Altre politiche, invece, sempre ad appannaggio del governo e non delle banche centrali, potrebbero essere concretamente di aiuto.
Innanzitutto, la ristrutturazione del debito e la tolleranza assoluta dovrebbero essere adottate con maggiore aggressività. Come notano Reinhart e Rogoff (2013) «è difficile concepire una soluzione negli ultimi cinque anni di crisi che non richieda un ruolo maggiore della ristrutturazione esplicita». Alcuni opinionisti hanno proposto la capitalizzazione del debito come strumento di risoluzione della crisi oltre a un maggiore uso di strumenti di ripartizione del rischio per aiutare a prevenire altre crisi in futuro. La ristrutturazione e la remissione del debito potrebbero a loro volta riportare alla capitalizzazione delle banche o, talvolta, alla chiusura degli istituti finanziari. La base giuridica dovrebbe essere pronta a questo.
In secondo luogo, le riforme strutturali devono essere perseguite in maniera aggressiva, per incentivare la crescita e la capacità di ripagare i debiti e di aiutare a risolvere gli squilibri commerciali. Liberare il settore dei servizi in molti paesi con importanti eccedenze commerciali sarebbe particolarmente di aiuto per raggiungere entrambi gli obiettivi. Alzare la soglia dell’età pensionabile ovunque è cruciale.
In terzo luogo, è necessario aumentare sensibilmente gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Questo permetterà sia al potenziale della domanda, sia a quello dell’offerta di espandersi. Entrambi i potenziali sono richiesti per una «crescita forte, sostenibile ed equilibrata». I mercati finanziari devono permettere di capire che un aumento delle passività del governo e degli asset produttivi è una cosa ben diversa dal solo aumento delle passività. Ottimisticamente una tale azione aiuta a stimolare anche gli investimenti privati. Ad ogni modo, dobbiamo capire perché i livelli d’investimento privato nelle economie di mercato avanzate sono così bassi e propongono misure per incrementarli, inclusi cambiamenti nelle pratiche di compensazione che incoraggiano in maniera efficace lo scorporo delle attività.
Infine, i governi devono utilizzare gli strumenti che ancora hanno a disposizione per accrescere la domanda aggregata. Alcuni hanno ancora spazio di manovra in ambito fiscale e devono risolvere i surplus delle partite correnti. Inoltre, lo spazio disponibile per un allentamento fiscale a brevissimo termine potrebbe essere aumentato dalla comunicazione di piani attendibili per diminuire gradualmente il debito sovrano. In più, la Cina dovrebbe tradurre in fatti in maniera energica le sue intenzioni già espresse di aumentare i consumi, ponendo così fine alla repressione finanziaria e permettendo un apprezzamento dei tassi di cambio e un aumento dei salari. Altri Paesi che hanno usato strategie simili per arrivare a una crescita basata sulle esportazioni, e tra l’altro anche a grandi eccedenze commerciali, devono chiedersi se tali strategie non ostacolino la speranza di una ripresa globale. Anch’esse potrebbero avere fatto il loro tempo.
Per concludere, non dobbiamo illuderci circa le difficoltà politiche che incontreranno i governi nell’attuare le politiche consigliate. Ecco perché sono arrivati ad affidarsi così tanto prima di tutto agli stimoli delle banche centrali. Come suggerito sopra, tolte queste politiche di governo che potrebbero funzionare, siamo destinati a seguire le solite politiche delle banche centrali, che molto probabilmente non riusciranno a rafforzare la domanda aggregata e rischiano di produrre danni economici concreti sul lungo periodo. Un “ripetuto déjà-vu” crea rischi ancora maggiori. Future battute d’arresto dell’economia legate a denaro ultra-facile minaccerebbero la stabilità politica e sociale, specialmente alla luce dei numerosi segnali di difficoltà già evidenti in tutto il mondo. Le implicazioni politiche sono quindi molto alte.