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 2015  novembre 16 Lunedì calendario

Ma i mercati sono razionali o emotivi?

Alla fine dell’estate il Financial Times ha riassunto in un solo titolo un evento che pochi fino a quel momento si aspettavano: «Il mercato azionario di fronte al peggior trimestre dal 2011 per i timori sull’economia globale». C’era tutto, nota adesso Roman Frydman: «Le prospettive dell’economia mondiale, cioè i fondamentali. E c’era la paura, ovvero la psicologia».
Frydman ha riflettuto a lungo su quanto quel titolo è riuscito a contenere in poche parole. Professore di economia alla New York University, una laurea in matematica e fisica, un master in matematica e informatica, Frydman da decenni non smette di pensare a come davvero i mercati funzionano e come gli operatori e gli osservatori li interpretano. Male, molto spesso. Subito dopo quel titolo del Financial Times, l’Eurostoxx 50 delle principali società quotate europee è salito di quasi il 15% in quaranta giorni. Nel frattempo i fondamentali non potevano essere diventati molto diversi da quelli che avevano prodotto «il peggior trimestre dal 2011». Ma la paura si era di nuovo trasformata in avidità, benché pochi l’avessero previsto un mese prima.
Nuove idee
Frydman ha dedicato la vita a studiare questi fenomeni e si è convinto che gli economisti debbano integrare con umilità nei loro modelli quello che definisce il «cambiamento imprevedibile». Su questo, l’economista newyorkese di origini polacche guida un programma di studi e una corrente di pensiero dal nome emblematico: «Economia della conoscenza imperfetta». Lo spazio e il sostegno per lo sviluppo degli studi sulla sua teoria li fornisce Inet, il centro studi voluto da George Soros dopo la grande crisi del 2008.
E proprio in una conversazione nell’ambito di Inet («Institute for New Economic Thinking»), Frydman ha cercato di cristallizzare la sua lettura dei mercati dopo le enormi oscillazioni delle ultime settimane. Il suo punto di partenza è una constatazione: nel 2013 hanno vinto il Premio Nobel per l’economia due teorici con idee apparentemente opposte di come funzionano i mercati. Da un lato Eugene Fama di Chicago, concentratissimo sull’importanza dei fondamentali (il fatturato o i dividendi) per spiegare come, quanto e perché i valori azionari si muovono. Dall’altro Robert Shiller di Yale che «nota come i prezzi delle azioni si muovano troppo per essere giustificati dalla teoria di Fama – nota Frydman —. Per Shiller dev’esserci qualcos’altro e cioè la psicologia umana». In altri termini l’esuberanza irrazionale quando i mercati salgono, l’eccesso di paura quando scendono e il comportamento del gregge sempre.
Il fatto che l’Accademia di Svezia abbia premiato con il Nobel nello stesso giorno due economisti con letture opposte dei mercati, per Frydman, è un segnale: si avverte il bisogno di una lettura moderna dei mercati. È da qui che parte la riflessione di Frydman, che non scarta ma trova molto parziali le teorie oggi dominanti: «Sia Fama che Shiller hanno una parte della storia, il primo sui fondamentali e l’altro sulla psicologia. Eppure la teoria economica non riesce a metterle insieme e questo è bizzarro», nota Frydman.
Presunta razionalità
Per lui la presunta razionalità del mercato, teorizzata da Fama e da tutta la scuola di Chicago, resta lontana da una visione efficace della realtà. L’idea che un modello meccanico possa prevedere tutti i possibili sbocchi, assegnando loro precise probabilità, è allo stesso tempo ancora in voga e vagamente inquietante. Presuppone che gli operatori sul mercato agiscano in base a un unico tipo di razionalità, nota Frydman, ma questo non accade mai. È la contraddizione stessa dell’esistenza di un mercato, che è più simile a una continua ricerca per tentativi di un prezzo adeguato per un bene o un servizio. Ciascuno vi applicherà una propria razionalità e per questo motivo persone diverse sono disposte a riconoscere prezzi diversi per lo stesso oggetto. Non esiste nella vita la razionalità unica, meccanicistica degli economisti che pretendono di formulare previsioni quantitative sulla realtà: «Ricordo vivamente come mi sentii a disagio quando sentii parlare per la prima volta di questa sfumatura un po’ orwelliana», dice oggi Frydman, che è cresciuto nella Polonia real-socialista e trova (in questo) le teoria della scuola di Chicago vagamente simile a quelle del suo Paese di origine.
La sua risposta è un invito agli economisti a essere più umili e aperti. «Dobbiamo smettere di cercare la palla di vetro – dice —. E dobbiamo integrare nei nostri modelli l’importanza dei cambiamenti imprevedibili». Ciò significa smettere di fare previsioni quantitative, «un cambio di status per gli economisti, che non sono più degli indovini». Basta ammettere che nei mercati contano sia la psicologia, che i fondamentali, che gli eventi imprevedibili. In fondo, è come si comportano tutti i giorni molte massaie facendo la spesa. Magari non è troppo sperare che prima o poi ci arrivino anche gli economisti e gli operatori di Borsa.