il Giornale, 16 novembre 2015
Il matrimonio con Enric Miralles, l’amore per Barcellona, i progetti per le metropolitane di Napoli e Parigi. Intervista all’architetto Benedetta Tagliabue
Benedetta Tagliabue è una delle griffe d’architettura più interessanti sulla scena internazionale. Ha casa e bottega a Barcellona. Qui, all’alba degli anni Novanta, fondava lo studio Embt col marito Enric Miralles, scomparso nel 2000. Spontanea, genuina, ha una punta d’eccentricità che scompare dietro il garbo e il senso della misura di chi è cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia brianzola. Donna di grande determinazione, è una forza gentile che ha incantato il mondo con il Padiglione Spagnolo all’Expo di Shanghai, il Parlamento Scozzese, il Mercato di Santa Caterina e il Parco Diagonal del Mar a Barcellona, il Municipio di Utrecht... All’attivo, anche docenze alla Harvard, Columbia University e Etsab di Barcellona.
A cosa sta lavorando ultimamente?
«Stiamo preparando tanti concorsi, abbiamo appena vinto il secondo premio a Mosca».
Congratulazioni.
«Uhm, peccato...».
Perché con un secondo premio non se ne fa nulla?
«Già. Conta il primo».
Però avete vinto quello per la stazione metropolitana parigina di Clichy-Montfermeil.
«Che è uno dei progetti su cui ci stiamo concentrando, assieme alla nuova linea della metropolitana di Napoli naturalmente. Finalmente il progetto partenopeo è decollato, sarà pronto entro due anni, o almeno si spera».
Mentre Parigi?
«Per il 2020».
Tempi biblici o semplicemente europei?
«Sono i tempi dell’architettura. Nel senso che costruire è facile. La difficoltà sta nel mettere a fuoco l’idea giusta, nel riuscire a comunicarla e a convincere la propria squadra e i committenti. Poi la costruzione in sé è facile. In Cina, per esempio, dicono che sanno costruire in un mese. Vero. Però come la mettiamo con gli anni ed anni spesi per ottenere i permessi?».
Perché ha voluto creare una sede anche a Shanghai?
«Per la verità, è stato il caso a portarmi in Cina. Tutto è nato con la partecipazione al concorso per il Padiglione Spagnolo all’Expo di Shanghai. La mia prima volta in Cina fu nel 1981, vi andai con mio zio. Mi piacque subito. Capii che c’era tanto da scoprire, si vedeva quella grandissima tradizione dietro la patina lasciata da Mao Zedong».
È arrivata a Barcellona quando era un posto dove succedevano le cose. È ancora inebriante?
«Io la amo molto. Forse questo è un momento meno emozionante rispetto agli anni Novanta. Ma anche per questo amo Barcellona ancora di più. Diciamo che questo mondo dell’indipendentismo catalano mi fa un po’ paura. Temo l’isolamento. Rimane comunque una città molto dinamica, altamente internazionale anche per via dell’aeroporto comodissimo che ormai frequento settimanalmente».
Dove il mondo della costruzione è più vivace?
«Per la verità, in questo momento, in nessun luogo. Per chi fa il mio mestiere, è un periodo difficile. La costruzione vive una fase di ripensamento. Prima, Paesi come gli Emirati, il Qatar o il Kazakistan volevano farsi conoscere tramite l’architettura, ma ora si trovano davanti un mondo in crisi, quindi si sono fermati anche loro».
Ha detto che in Italia si vince molto, ma non si realizza quasi nulla.
«Purtroppo è proprio così, anche se spero che cambi qualcosa prima o poi, e che l’Italia guardi fuori e veda che altrove si è più dinamici. Comunque a Napoli, come dicevamo, è finalmente decollato il progetto della linea metropolitana».
Nel suo studio ci sono italiani?
«Molti, perché l’Italia è il tipico luogo dove abbondano persone capaci e atenei molto buoni. Magari sono carenti nella parte pratica, ma a livello teorico, le università d’architettura italiane funzionano bene. In questo momento non c’è molto lavoro quindi i giovani in gamba, ambiziosi e dinamici fanno la valigia. Fra gli architetti che in questo momento si muovono di più, ci sono proprio gli italiani».
Ha detto che all’epoca degli studi a Venezia c’erano i grandi teorici dell’architettura, ma i grandi architetti erano altrove. Dove?
«C’è stata un’epoca in cui erano gli spagnoli a distinguersi, tra cui molti catalani. Poi è stata la volta degli olandesi, quindi degli inglesi. È un ciclo che è molto legato alle necessità della nazione».
E oggi?
«Troviamo bravi architetti ovunque. Forse dobbiamo conoscere un po’ meglio il Sudamerica. Lì ci sono professionisti in gamba, ma lavorano a conduzione famigliare, quindi è difficile che abbiano visibilità, che si possano conoscere. Anche in Asia, si trovano cose interessanti».
Quella dell’architetto rimane una professione sostanzialmente maschile se esercitata ad alti livelli. Perché?
«Vero. Però come sta dimostrando l’Arc Vision Prize di Italcementi, le donne stanno venendo alla ribalta. Questo concorso ci fa entrare in contatto con architetti donne che fanno cose interessanti, anche in zone complicate, come l’India, l’Egitto o il Giappone».
Fu difficile scindere il ruolo di moglie da quello di partner professionale di Enric Miralles?
«Per la verità non fu mai scisso, non si poteva. Tutto era connesso. Anche perché la nostra architettura era quotidiana. Era normale invitare i clienti a casa, e magari cucinare per loro. Nei momenti più tranquilli, profittavamo per discutere di alcuni progetti e dettagli».
Cosa avevate in comune e cosa vi distingueva?
«Quando ci sposammo, il giudice ci disse una cosa meravigliosa: La coppia è come un’architettura che rimane in piedi se le colonne rimangono separate. Cioè ognuno porta avanti il proprio ruolo senza però confondersi nell’altro. Questo messaggio fu importante soprattutto per noi che vivevamo in simbiosi, e dunque era importante potersi distinguere. A lui lasciavo il ruolo di valanga, di trascinatore. Io, con lui al fianco, ero più silenziosa, e di fatto rimango un po’ riservata. Quando morì, dovetti assumere tutti i ruoli, quello di mamma, papà, imprenditrice… Non è facile trovare l’equilibrio, spero di farcela prima o poi. Quel che più conta è che una donna, per realizzarsi, non assuma modelli maschili».
Quando e come ha scoperto di voler diventare architetto?
«Da fanciulla mi piaceva molto disegnare. Ero tranquilla, un po’ introversa, col disegno sentivo di imparare il mondo, le idee venivano da dentro, non copiavo. A un certo punto è emersa la voglia di applicare il disegno per far crescere il mondo».
Sempre affascinata dall’architettura?
«È una disciplina molto bella e complessa. Dà la possibilità di concretizzare pensieri, di far vivere in un certo modo la gente».
Quali sono le esigenze dell’abitare dell’uomo del Duemila?
«Si parte dal presupposto che si è meno sicuri di un tempo di stare per sempre in un luogo. Si pensi anche solo a cosa innescano i divorzi. C’è una maggiore incertezza. L’architettura sta tenendo conto di questo».
Le piace la Valencia di Calatrava?
«Non molto. Non è fra i miei architetti preferiti. Ha inventato una maniera di fare che però non ha fatto scuola. È un po’ un solitario, un individualista. Ha creato un’architettura di pose».
Chi le piace?
«Chi cura di più il paesaggio, chi ha la consapevolezza che non conta solo fare un oggetto ma anche i dintorni dell’oggetto».
Che dice del nostro Renzo Piano?
«Ha fatto edifici memorabili. Credo che abbia inventato una maniera di essere architetto, un atteggiamento che era già diverso e innovativo alla sua epoca. Subito viaggiò tanto, si fece conoscere a livello internazionale. Lui sì che ha creato una scuola pur non essendo stato direttamente professore».
Come sono le giornate tipo dell’architetto Benedetta Tagliabue?
«Mi sembra spesso di essere in una centrifuga. Sono tanti i temi a cui dedicarmi, nello studio scorrono più progetti in contemporanea, poi c’è la Fondazione, la preparazione ai Concorsi, i due figli a Londra».
Futuri architetti?
«Il figlio studia cinema, e la figlia, sì, architettura. Il ragazzo talvolta prende in giro la sorella perché segue le orme dei genitori».