Nova - Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2015
Nelle fabbriche di Shenzhen, lì dove la religione è il prodotto
«Vedi quei grattacieli laggiù, dietro al ponte? Cinque anni fa non c’erano. E anche quei due in vetro, in fondo alla strada. Non c’era niente». Xue aggrotta la fronte quando le chiediamo come questo sia possibile. Una smorfia che sembra voler dire: «Questa è la Cina!». Il suo nome, in cinese, significa neve. Anche se a Shenzhen la neve non esiste. È autunno inoltrato, ma quando il sole segna mezzogiorno la temperatura sfiora i trenta gradi e l’umidità incolla la camicia sulla schiena. Inutile cercare su Google se domani farà più fresco: qui Google non funziona, e neanche Facebook e Twitter per tenersi in contatto con gli amici.
Shenzhen è la città industriale più importante della Cina meridionale. È qui che nasce e cresce l’impresa tecnologica che fa paura ai coreani di Samsung e Lg. Ma non chiamatela Silicon Valley, qualcuno potrebbe prendersela. Il sogno californiano è distante per concetti e contenuto. La religione è il prodotto, e poco importa se poi i software che girano sui device arrivano da Mountain View o Cupertino.
È a Shenzhen che Huawei, una delle aziende cinesi più prestigiose al mondo, ha il suo quartier generale. Una città nella città, dove lavorano più o meno cinquantamila persone. Il palazzo di vetro conta trenta piani, ma è tutto intorno che si muove il gigante cinese della telefonia. Huawei, a Shenzhen, non è semplicemente un’azienda. È un quartiere. Cinquemila dei dipendenti abitano nel campus attorno al luogo di lavoro. Edilizia ordinaria, lontana dai grattacieli e dagli hotel extralusso del centro. Campi da basket, scuole, giochi. Qualche chilometro più in là c’è anche l’isolato dei big dell’azienda, con nel mezzo un laghetto che rasserena. Per muoversi all’interno di Huawei serve un’auto e a ogni varco c’è una fotocamera che immortala chiunque varchi le barriere.
Trent’anni fa qui non c’era niente. Shenzhen era un villaggio di pescatori, qualche migliaio di persone. Oggi conta 11 milioni di abitanti, assiepati in palazzi da 60 piani che sembrano alveari, e produce gran parte degli smartphone che quotidianamente teniamo in mano. Con un’ora di macchina sei a Hong Kong, posto da sognatori. Nel mezzo una frontiera che non lascia nulla al caso. La posizione geografica e un regime fiscale agevolato, hanno fatto esplodere il sogno industriale cinese. In questa città che corre veloce ha sede lo stabilimento più importante della Foxconn, la famigerata azienda che di fatto produce gli iPhone, ma anche i Huawei e altri centinaia di smartphone. I telefoni “made in China” difficilmente non passano da qui, Ma di entrare a Foxconn non se ne parla neanche. Dell’azienda, però, si può vedere quello che arriva al fake market tecnologico più grande della Cina. Un posto dove confondere il falso e l’autentico è una questione di fortuna, fra iPhone tarocchi e iPad Pro sugli scaffali ancor prima del lancio ufficiale di Apple.
Huawei, però, è un’altra storia. Oggi è il terzo produttore di smartphone al mondo, e se la cavalcata continuerà con le stesse percentuali degli ultimi due anni, molto presto il duopolio Apple-Samsung avrà un terzo incomodo. Gli ultimi dati parlano di una crescita, in Europa, del 98%. Roba da far tremare i polsi ai competitor. La strada seguita sembra così semplice da essere disarmante, almeno a parole. Huawei ha puntato forte su design e qualità, investendo più di un miliardo l’anno in ricerca e sviluppo e trasferendo il design in Francia. «Fino al 2011 puntavamo forte sulla quantità, producendo 75 modelli di smartphone l’anno. Abbiamo invertito la rotta. Ne facciamo “solo” venti, ma puntiamo forte sulla qualità. E sta funzionando», racconta uno dei top manager all’interno di una stanza dell’headquarter, mostrandoci progetti per il 5G, lampioni connessi, idee di smart city.
Interbrand, che annualmente classifica i migliori 100 brand al mondo, lo scorso anno ha inserito Huawei al 94° posto (quest’anno è all’88°, ndr), ed è stata la prima azienda cinese nella storia a entrare nella lista. A Shenzhen se la ridono beffardi. E quando con un italiano improbabile ci accolgono dicendo «Benvenuti a Cina», sottendono la potenza di fuoco che sta travolgendo il mondo tecnologico. L’Occidente è avvisato, ma forse non ha scampo.