Libero, 16 novembre 2015
Intervista a Philippe Daverio, critico d’arte, scrittore, divulgatore e molto altro. «Sono totalmente milanese, convintamente toscano, son de’ casa a Venessia, ma faccio fatica a essere italiano»
Solo per miracolo sono riuscito a fare l’intervista a Philippe Daverio nella sua casa milanese di Porta romana. Il problema non era certo la mancanza di spazio, essendo la dimora dell’esimio critico d’arte col papillon una di quelle solide magioni borghesi dove tutto è vasto. Colpisce la biblioteca che dallo studio dove sediamo giunge al soffitto, serpeggia nei corridoi, penetra nelle stanze e si arena al decimillesimo volume in un’intercapedine. Una scala a rotelle, simile a quelle usate dagli antichi per gli assedi, permette di inerpicarsi fino all’ultimo scaffale e a un busto di Scipione l’Africano che da lassù pare il nume tutelare di casa Daverio.
«Ho simpatia per lui perché è arrivato a 83 anni», dice Philippe che ne ha 66 ed è un ipocondriaco al cubo che al primo bruciore di stomaco teme di esalare l’ultimo respiro. Quando mi ha aperto la porta – in abito di velluto blu e la striscia rossa della Legione d’onore all’occhiello – mi è sembrato in forma smagliante. Lui però geme: «Sono in pessimo stato» e invece di aggiungere come avrebbe fatto chiunque: «Forse ho l’influenza», ha detto testualmente: «Spero sia solo influenza». Infatti, pensa al peggio e, per tirarsi su, fuma una sigaretta dietro l’altra, fino all’ultimo sboffo. Ride della sua incoerenza e gli torna il buon umore. D’ora in avanti, parlerà con la verve dell’uomo estasiato di vivere.
Distratto dagli avvenimenti, ho dimenticato di dire perché è miracoloso che veda Daverio a casa sua. È, infatti, sempre in giro, inafferrabile. Adesso, bontà sua, mi dà un’ora di tempo, poi riparte da Milano. «Noi espatriati siamo come l’ebreo errante – spiega -. Quando da assessore (della giunta leghista di Marco Formentini, 1993-1997. Ndr) fui inchiodato a Milano, mi sentivo agli arresti domiciliari. Nella vita ho usato tutti i mezzi di locomozione, salvo il sottomarino. Cavalli, dromedari, in Nepal l’elefante, unico modo per girarlo». «Tutto ha cospirato per fare di lei un giramondo – dico. Nato a Mulhouse in Alsazia, da mamma francese di origine tedesca, papà italiano, scuole francesi, poliglotta di cinque lingue, francese dalla culla...». «No, la mia lingua di strada fu l’alemanno, tedesco dell’ovest, simile allo svizzero. Il francese è la lingua della scuola, da interno nei collegi alsaziani. Baccalaureato alla Scuola Europea di Varese. L’italiano l’ho imparato bene solo frequentando Economia alla Bocconi. Invece, la retorica che mi ha acquistato la popolarità in tv con la serie Passepartout sull’Arte, l’ho appresa da assessore. Dovendosi imporre a una gabbia di matti come un Consiglio comunale si impara presto ad attirare l’attenzione». «Non ho ben capito se lei sia italiano o apolide», gli dico, piuttosto confuso. «Daverio è un cognome presente a Milano già nei censimenti del 1300 e un avo fu eroe delle Cinque Giornate. Mio nonno lasciò l’Italia per l’Alsazia dopo l’unità perché, seguace di Carlo Cattaneo, preferiva il federalismo. Ma rimase tanto lombardo da costruire in Alsazia un Sacromonte come quello di Varese e da fare nascere suo figlio – mio padre – a Milano per riportarlo poi subito a Mulhouse. Così, siamo cresciuti io e i miei cinque fratelli, uno dei quali è tra i più noti chirurghi plastici svizzeri». «In che differisce da un normale italiano?», chiedo. «Non sono italiano – replica serafico -. Sono totalmente milanese, convintamente toscano, son de’ casa a Venessia, ma faccio fatica a essere italiano». «La pensavo addirittura risorgimentale, vedendo la sua passione per l’arte nostra», replico. «Sono risorgimentale ma di un’Italia federalista. Sono anche terronista perché mi piace il Meridione. Una terra depredata dalla storia unitaria che ha dato spazio a ceti sociali parassitari che aspettano solo la pappa fatta. Sogno una rivoluzione culturale del Sud che vorrei finanziata dall’Ue. Come penso che l’Ue debba occuparsi dell’immenso patrimonio culturale italiano. I nostri beni non appartengono all’Italia ma all’Occidente e sono indispensabili per l’identità europea. La sola cosa che può generare nell’Europa la fierezza per se stessa, è la sua cultura. Di essa, l’Italia è il fondamento».
Ha detto proprio così. A leggerlo sembra un proclama politico, ma il tono era quello conviviale del Daverio televisivo. Dopo l’esperienza di assessore leghista, Philippe si tiene lontano da ogni tentazione politica «perché – dice – si diventa poveri. Si guadagna troppo poco e non lascia tempo di fare altro». «È il contrario di ciò che pensa la gente», obietto. «Se non rubi, ti impoverisci. Io, dopo due anni che facevo l’assessore, ho dovuto chiudere per fallimento la bella galleria d’arte che avevo in Via Montenapoleone. Se volessi rifare politica, dovrei ridimensionare tutte le mie abitudini, rinunciare a dirigere Art & Dossier, alle mie consulenze, ecc. Se solo lo intuisce, mia moglie (abbassa la voce) mi mena».
Come evocata, appare in studio Elena Gregori, sua compagna dal 1972 e madre di Sebastiano, il loro virgulto, oggi venticinquenne. La simpatia è una dote di famiglia e anche lei è ospitale come Philippe. Dopo avergli ricordato le telefonate che deve fare, approfitta per riordinare lo scrittoio ridotto un guazzabuglio di mozziconi e carte. «Ogni tanto bisogna derattizzare», dice e ci lascia con un sorriso all’intervista.
Si sente diminuito se la definisco un divulgatore?
«Mi piace semplificare ma in me c’è anche molta ricerca. Quando con la macchina da presa, che è il migliore occhio che ci sia, metto in relazione vari tasselli che aumentano la comprensione dell’opera, mi eccito».
Si sente in gara con i vari Sgarbi, Strinati, Paolucci?
«No. Vittorio è un prodotto del licealismo italiano. Scrive benissimo, in modo classico. Molto italiano. Strinati, in alcuni campi, è molto più ferrato di me. Idem, Paolucci. L’Italia ha nomi fantastici nella critica d’arte».
Quali dipinti salverebbe dal Diluvio?
«Il Tondo Doni di Michelangelo e la Grande Jatte di Seurat. Li metterei sulle pareti opposte dell’Arca, come i due poli dell’arte europea».
I suoi libri preferiti?
«Il Faust di Goethe, I promessi sposi di Manzoni, zenit del sense of humour lombardo, L’educazione sentimentale di Flaubert».
Scrive sul curiale Avvenire. Baciapile?
«Ho grandissima simpatia per il mondo della Chiesa, ma sono poco beghino. Però è negli ordini che ho incontrato i maggiori intellettuali».
Francescani, domenicani...?
«Non solo negli ordini ecclesiali, nelle organizzazioni in genere: dal Ministero del Beni Culturali ai carabinieri. Non conosco invece intellettuali isolati di cui valga il ricordo».
Sposato in chiesa e figlio battezzato?
«Matrimonio laico. Sebastiano ha avuto il battesimo a tredici anni, già consapevole».
Credente?
«Convinto. Tendo al calvinico (calvinista, ndr) da buon alsaziano abituato ai templi senza immagini».
Le garba Dario Franceschini ai Beni Culturali?
«Innegabilmente, un uomo di buona volontà».
L’errore che gli rimprovera?
«Avere preso a caro prezzo sovrintendenti stranieri, pur avendo nella sua Amministrazione uomini di grande valore».
È ordinario alla Facoltà di Architettura di Palermo. Perché laggiù?
«Ho cominciato al Politecnico di Milano. A Palermo si è aperta una porta e per tre anni ho insegnato gratis. Incongruenze di una riforma universitaria catastrofica. Poi, l’occasione di un ultimo concorso, che ho vinto».
A Palermo, nel 2010, fu incaricato dalla giunta Cammarata, di centro destra, dei festeggiamenti di Santa Rosalia.
«Con le casse comunali a secco, feci tutto senza soldi. Non sapevo che in Sicilia fosse un crimine. Fui contestato dai disoccupati cui veniva a mancare una greppia. Mi dettero del porco».
Reagì da par suo. Disse «cicciona» a una tizia, «disoccupato di merda» a un tizio, «parassiti» a tutti e si dimise dall’incarico al motto: «La Sicilia è cosa vostra».
«Mi gridarono: “Fascista”. Replicai: “Sono stalinista e noi vi mandavamo nelle miniere di sale”».
Ad aizzare la plebaglia fu Davide Faraone, allora segretario del Pd isolano, oggi sottosegretario all’Istruzione.
«Tipico siciliano. Era con la destra in Regione e contro in Comune».
Lei querelò. Com’è finita?
«Mi ha mandato una lettera di scuse».
Faraone si è poi distinto per l’elogio degli studenti occupatori di aule perché, disse, è un’attività formativa.
«La cosa più intelligente che abbia detta. Manca in Italia un po’ di agitazione tra i giovani. Sono fiacchi».
Non Renzi, il nostro giovane premier.
«Lui è l’incrocio tra un Mariano Rumor, venuto meno bene, e Roberto Benigni. Senza Benigni che gli ha dissodato il terreno, non si sarebbe mai imposto. Era già successo col Cav».
Cioè?
«Senza Gino Bramieri e Renato Rascel non avremmo avuto Berlusconi. Gli italiani amano che il loro politici siano un’evoluzione dei loro comici. Mussolini non ci sarebbe stato senza la pubblicità delle lamette da barba degli anni Venti che mettevano in risalto il mascellone».
I politici preferiti dagli italiani sono...
«Miti pop, come Garibaldi».