il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2015
Mafiosi, agenti segreti, terroristi di destra e di sinistra: era questa la bella gente che frequentava il bar Olivetti di via Fani a Roma. Che, si scopre ora, il giorno del rapimento di Moro era regolarmente aperto, e non chiuso come si è sempre detto
Via Fani, angolo via Stresa. Qui una volta c’era il bar Olivetti, il 16 marzo 1978 epicentro del rapimento Moro con i quattro brigatisti travestiti da avieri, nascosti dalla siepe che proteggeva il giardino, e i cinque agenti di scorta rimasti sul selciato. Raffiche di mitra, grida, sangue, terrore. Una sequenza di pochi minuti che ha cambiato la storia d’Italia e che, a distanza di quasi 40 anni, resta avvolta da misteri che alimentano la trama di una Spectre degna dell’ultimo James Bond. Uno dei misteri riguarda proprio questo bar che quel giorno, contrariamente a quanto affermato in quattro processi e tre commissioni parlamentari d’inchiesta, non era affatto chiuso “per lavori di ristrutturazione”, ma regolarmente aperto. Lo conferma un testimone attendibile ascoltato dalla commissione Fioroni che è tornata a indagare sull’affaire Moro: “Da quel bar telefonai ad Angela Buttiglione, un’amica che lavorava al Tg1. Avvertii Frajese, gridai, stanno sparando in via Fani, ci sono morti a terra”. Fu così che Paolo Frajese, inviato della Rai, arrivò per primo sul luogo della strage e riuscì a trasmettere quasi in tempo reale il più tragico reportage di quegli anni.
Qualcuno aveva interesse a proteggere quel bar dalle indagini sulla strage di via Fani? Che in quel locale ci fosse qualcosa di strano non doveva essere un gran segreto. Il maresciallo Leonardi, ucciso mentre faceva scudo ad Aldo Moro con il suo corpo, proibì a Maria Fida, la figlia più piccola del presidente della Dc, di frequentarlo. “Ma fanno i cornetti più buoni di Roma”, protestava lei. Niente da fare, il bar Olivetti era off limits per la famiglia Moro. Il motivo si è scoperto soltanto in questi mesi, grazie all’ostinazione di un gruppo di parlamentari che ancora cerca la verità sul più grave attentato del secolo scorso, nel disinteresse della politica e dell’opinione pubblica travolta da altri scandali e altre pericolose connection.
In quel bar era di casa Frank Coppola, proprio Frank tre dita, braccio destro di Lucky Luciano negli Usa e padre naturale di Francis Turatello, criminale che controllava la malavita a Milano. Al summit dell’Hotel Le Palme del 1957 la mafia decise di spedire Coppola a Roma, nell’ambito di un progetto che puntava al riciclaggio sul territorio nazionale delle enormi ricchezze accumulate con il traffico di droga. Ma Frank, come Attila, preferì attestarsi alle porte e trasformò Pomezia nella roccaforte dei suoi affari. È l’unico nome trapelato da un’indagine secretata, ancora al vaglio della relazione che a fine mese dovrebbe fornire i risultati della nuova inchiesta sul caso Moro, che promettono di essere eclatanti, ma all’interno del bar Olivetti si aggiravano altre inquietanti presenze: qualche brigatista (impuro?), esponenti dei Nar, ma anche della banda della Magliana.
A prendere il caffè andava spesso anche un pezzo grosso dei servizi segreti, tal Bruno Barbaro, cognato del colonnello Fernando Pastore Stocchi, dirigente della base di Capo Marrargiu che organizzava lo stay behind. Barbaro, che nell’ultimo anno aveva aperto un ufficio al civico 97, proprio accanto al bar Olivetti, è l’uomo con il “cappotto cammello” che fu visto aggirarsi dopo la strage con straordinaria calma tra cadaveri e proiettili. In quel locale c’era un mix esplosivo di destra e sinistra che si muoveva sotto la malcelata regia della criminalità mafiosa e dei servizi segreti. Ma i proprietari sembravano non accorgersi di niente, neppure di un certo traffico di armi e droga che si svolgeva sotto i loro occhi, e ciò stupisce perché una quota importante dell’azienda apparteneva alla figlia dell’ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Roma è sempre Roma e lo spaccato offerto dal bar Olivetti 40 anni fa non è troppo diverso da quello dei locali frequentati dai protagonisti di Mafia capitale. Dal bar Franco di via Silvani a Pietralata, dove sono state girate molte scene di Romanzo criminale, nella fiction e nella realtà, a La Piazzetta, in via Melegari al Fleming, dove Massimo Carminati e il camorrista Michele Senese quasi vennero alle mani. Sui nomi, a parte quello di Frank Coppola, è top secret ma non stupirebbe scoprire che il non ancora Cecato (lo diverrà tre anni dopo in una sparatoria con i carabinieri) nel 1978 frequentasse quel bar Olivetti, in compagnia di Giusva Fioravanti o Alessandro Alibrandi con i quali aveva appena dato vita ai nuclei armati. Oppure con Renatino De Pedis, con il quale fonderà l’impero dei video-poker, macchinette che sputavano soldi in grado di arricchire soltanto loro. Del resto i Nar si ponevano sullo stesso piano delle Br, volevano essere un’organizzazione anti-borghese: “Non sono mai stato fascista. Sono stato anti-anti-fascista, non c’è una sola foto in cui faccio il saluto romano”, ha detto ai giudici Cristiano Fioravanti, fratello minore di Giusva.
Di altri tentativi di fusione ideologica si fece portatore Egidio Giuliani, di recente condannato a 20 anni per l’omicidio di Silvio Fanella, il broker di Gennaro Mockbel ucciso proprio alla Camilluccia.
Giuliani in quegli anni organizzò una rete logistica in grado di fornire armi e documenti falsi a terroristi di destra e sinistra e una carta d’identità finì in tasca a Pippo Calò. Magari anche lui era di casa al bar Olivetti che oggi non esiste più. Al suo posto troviamo il “Restaurant Camilluccia” circondato da eleganti gazebo, spariti la tavola calda, il caffè e i cornetti che piacevano a Maria Fida e perfino la siepe. Il fioraio si è trasferito all’altro capo della strada, il giornalaio ha chiuso i battenti. Peccato dice un’anziana signora che cammina con il bastone: “Il bar Olivetti era un po’ caro, ma dava vita a questa strada, noi ci andavamo soltanto di domenica”. Giorno di riposo per la mala romana.