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 2015  novembre 16 Lunedì calendario

Alborosie, l’italiano che sta in Giamaica e ha scalato le classifiche del reggae

Il covo di Alborosie è sulle colline di Kingston, in Giamaica. Diciamo covo perché di notte ci si arriva attraverso un groviglio di strade senza luci, e anche perché è buio pure dentro, nella casa dove Alborosie vive e dove crea la musica.
La stanza d’ingresso è piena di manifesti di Bob Marley e di memorabilia del reggae. Ma soprattutto ci campeggia l’immagine di uno spettro tipico della santeria locale, una cosa sinistra che si incontra qua e là in Giamaica, però non si vede mai dentro alle case. Che ci sta a fare qui? «Ah non lo so proprio – ride Alborosie – l’ha appesa mia moglie, che è una giamaicana doc. Eppure i giamaicani scappano subito fuori da una casa se ci trovano quella roba lì...». Ecco, magari sarà una specie di antifurto.
Alborosie ha 38 anni, la barba corta e il tipico copricapo dei rasta; quando lo toglie, mostra capelli lunghi fino alle caviglie, attorcigliati in trecce spesse come gomene. Chili e chili di roba. Indossa una maglietta nera con su scritto «Based on a True Story». Lui è arcinoto ai fan del reggae, ma forse ci vuole una presentazione per il resto del pubblico.
Alborosie è per il reggae quello che è Eminem per l’hip-hop: cioè un bianco che ha scalato i vertici della musica nera nonostante la partenza a handicap. Alborosie ha pure un’altra peculiarità, è italiano: «Di origini siciliane e calabresi – precisa -, emigrato da piccolo a Milano e poi a Bergamo», e ora naturalizzato giamaicano. Nel 2011 ha vinto il premio Mobo che incorona i migliori artisti mondiali della black music: nella categoria Reggae nessuno ci era mai riuscito senza avere la pelle nera. Il premio, inteso come oggetto, sta accanto a una chitarra, nello studio con il mixer dove cominciamo l’intervista: è un semplice blocco di vetro con incisa la sigla Mobo, ma per Alborosie ha un significato speciale, dimostra che le scelte (azzardate) che ha fatto erano giuste.
Domanda impegnativa: c’è rapporto fra l’etnicità e la musica? Tu hai dovuto diventare giamaicano. E se invece fossi rimasto in Italia? «Non sarebbe stato lo stesso – risponde -. Non puoi fare certe cose se non le vivi. Vivendo qui tu non fai una cosa, la diventi». Ma come si fa a cambiare identità? «È una cosa pericolosa, perché rischi di perderti. Devi prima distruggerti e poi ricostruirti. Separare le molecole e poi rimetterle insieme. Come nel teletrasporto di Star Trek».
E quando Alborosie parla di perdersi, non dice così per dire, in senso filosofico: la Giamaica è bellissima ma è anche piena di tentazioni, e si rischia davvero di perdere se stessi. A lui non è successo.
Il percorso di Alborosie è anche più strano di come uno si immagina, perché lui non è arrivato qui con la velleità di diventare una star. Si racconta così: «Ho scoperto il reggae a 15 anni, in Italia, sentendo Bob Marley in tv. Non sapevo neanche chi fosse, ma ho capito subito che quella era la mia strada. Poi ho fondato il gruppo Reggae National Tickets. Abbiamo fatto concerti, inciso dischi. Andavamo bene, ma dopo un po’ mi sono accorto che l’Italia era una cosa piccola. Allora ho voluto venir via».
Per sei anni ha passato in Giamaica tre mesi l’anno. «Non facevo niente. Guardavo, ascoltavo la musica. Imparavo l’arte e la mettevo da parte. Poi mi sono trasferito a tempo pieno in Giamaica, a lavorare in una casa discografica di Port Antonio, per altri sei anni. Sei anni senza mai cantare e senza mai suonare».
Una traversata nel deserto. Alborosie non si sentiva all’altezza dei giamaicani. «Un giorno mi sono detto: io ormai conosco la loro musica. Conosco il posto e la gente. So parlare anche il patwa (la lingua dei giamaicani e delle canzoni reggae, ndr). Sono pronto. È il momento in cui ho cominciato a cantare e a suonare reggae qui, in Giamaica. Due o tre canzoni. Che sono piaciute a molti: il telefono ha cominciato a squillare. Poco tempo dopo, con molta paura mi sono avvicinato a un palco. Mi hanno dato un calcio e ci sono salito». Non è più sceso.
Passiamo in un altro studio, sempre in casa di Alborosie. È pieno di tastiere vintage degli Anni 60 e 70 (poi ci sono una batteria e un pianoforte): come mai questa roba vecchia? «Perché il suono digitale di oggi cerca di imitare questi strumenti. Ma io sono nato in quell’epoca... Se fossi una tastiera, sarei una di queste».
Per ultima, la domanda classica di questo tipo di interviste: che ci dici, Alborosie, del tuo prossimo disco? «Ne preparo due. A marzo esce un mio lavoro reggae, e in contemporanea uno da me prodotto, al quale partecipano artisti italiani: Jovanotti, Fedez, Elisa, Negramaro, 99 Posse, Africa Unite e Caparezza. Ognuno di loro canta su basi mie, basi diverse, più pop o più dub a seconda dei casi. È una celebrazione della mia terra d’origine, con artisti che mi hanno sempre accompagnato. Compagni di viaggio».