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 2015  novembre 16 Lunedì calendario

Fabrizio Bentivoglio, professionista del no e per il resto efferato dilettante

Le ragioni ci sarebbero tutte. Con lo sguardo concentrato sulla sigaretta che sta arrotolando, Fabrizio Bentivoglio, milanese, classe 1957, sembra quasi ripeterlo a se stesso: «Di motivi per essere pessimisti ce ne sono eccome, ma ho tre figli, di 3, 6 e 8 anni, non posso esserlo più di tanto».
Insomma, si deve andare avanti, facendo tutto quello che si può, ripensando anche all’invito di un maestro: «Mario Monicelli lo aveva detto, dovete fare la rivoluzione, compiere scelte complicate, sennò finisce che dovrete tenervi l’Italia così com’è. Oggi però siamo troppo compromessi, tendiamo a rimandare tutto alle generazioni successive». Intanto, però, qualcosa si può fare. Per esempio essere bravi nel proprio mestiere, come succede a Fabrizio Bentivoglio, che ha iniziato in teatro alla fine degli Anni 70, e poi è passato al cinema e ora è in sala con due personaggi opposti e magnificamente interpretati, il poliziotto pavido de Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno, e il chirurgo romano tronfio, pieno di soldi e di pazienti da salvare di Dobbiamo parlare di Sergio Rubini (da giovedì). Con il tempo, dopo essere stato a lungo un bello che non voleva esserlo, Bentivoglio ha affilato le armi recitative e si è avviato spedito verso personaggi sempre più lontani, nobili o cialtroni, ambigui o disperati, purché diversi da lui.
L’impressione è che, con il tempo, lei si sia alleggerito di un peso. Giusto o sbagliato?
«L’età è liberatoria. Prima ero più contratto, quindi più insoddisfatto, e l’insoddisfazione mi ha spinto a migliorare. In questo mi ha molto aiutato l’esser diventato padre e avere una famiglia, mi ha regalato una maggiore rilassatezza».
Recitare è il suo mestiere. Ne è sempre stato certo?
«Non ho mai avuto dubbi di poter fare quello che stavo facendo, e per riuscirci ho evitato attentamente di accomodarmi sul già fatto. In genere, quando una cosa funziona, ti viene sempre richiesto di ripeterla, sottrarsi non è semplice».
Le è capitato di dire dei no?
«Sono un professionista del no, per il resto rimango un efferato dilettante».
L’aspetto più bello del suo lavoro?
«L’attore deve avere la capacità di adattarsi al mondo poetico del regista, e questa è la cosa più divertente perchè è da lì che nascono gli incontri umani, quelli in cui scopri le ragioni per cui una persona ride o piange».
Ha iniziato in teatro con i nomi più importanti, nei tormentati Anni Settanta. Che cosa ha imparato?
«La mia formazione è teatrale, Strehler era convinto che la poesia aiutasse a vivere meglio, io lo seguivo, ma questo mi ha fatto sentire un po’ scollato dalla mia generazione. Mentre provavo, in palcoscenico, al buio, sentivo fuori, in via Larga, i tumulti dei miei coetanei. Solo dopo ho capito che il mio lavoro poteva servire a portare avanti un altro tipo di battaglia».
Tornerebbe indietro e cambierebbe tutto?
«No, ma il cruccio su quel periodo resta, si è provato a mettere in atto un cambiamento, l’obiettivo non è stato raggiunto, ma adesso è troppo facile giudicare. La verità è che ora si può parlare, al massimo, di rivoluzione culturale e di linguaggio».
«Gli ultimi saranno gli ultimi» e «Dobbiamo parlare» descrivono fette di una società italiana in sofferenza. Lei come la vede?
«Vedo che la forbice si divarica, che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri più poveri. Volevamo che tutti stessero meglio, non siamo stati capaci di realizzare il sogno».
La vicenda degli «Ultimi saranno ultimi», con Paola Cortellesi precaria licenziata perchè incinta, si aggancia alle parole di Papa Francesco sull’attuale condizione femminile. Ci ha pensato?
«Una gravidanza, che dovrebbe essere la cosa più bella dell’esistenza, diventa un ostacolo insormontabile. Certo, ne ha parlato anche il Papa e proprio per questo, invece di adagiarsi, bisognerebbe capire che è il momento di reagire».