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 2015  novembre 16 Lunedì calendario

Il bollito e la regola del sette. Tradizione ed evoluzione di un piatto contadino eccezionale

Non fa ancora freddo ma per chi ama il bollito il problema non si pone. È iniziata la stagione dove ai locali che lo servono tutto l’anno ce ne sono, ce ne sono per fortuna si affiancano quelli che lo mettono stagionalmente in carta ma facendone un punto di forza. Lo fanno per quanti considerano il bollito qualcosa di importante, di conviviale (in effetti, la regola non scritta prevede che se non si è almeno in dieci si gode meno) e diciamo la verità, di maschile. Il piatto è stato un po’ bistrattato da diete, filosofie vegetariane, idiosincrasie personali nei confronti di alcune sue parti, dimenticando la sua storia antichissima.
È un piatto contadino, istintivo (un pezzo di carne, acqua, verdure: così si mangia di sostanza e si ottiene un brodo fortemente proteico) che sostanzialmente unisce la Padania più di tante teorie: l’asse va dal Piemonte profondo sino alle province venete più a ovest, passando per Lombardia e alta Emilia. Non ci sono ricette uniche, semmai visioni più o meno tradizionali. Difficile però contestare il primato al Piemonte, soprattutto nella zona tra Cuneo e Asti, dove ci sono anche sagre dove il bollito oltre che in locali, quasi leggendari per i gourmet viene servito bello fumante nelle strade. La Fiera del Bue Grasso a Carrù (il 17 dicembre) e Moncalvo (il 9 dicembre, questa è arrivata alla 378° edizione!) rientrano nella categoria. Il Piemonte è anche la patria del (gran) bollito misto, basato sulla regola del sette che viene seguita quasi integralmente dalle varie confraternite dedicate al piatto.
Sette i tagli di carne: scaramella (parte alta del reale, biancostato), punta di petto, fiocco di punta, cappello da prete, noce, tenerone (muscolo lungo della spalla traversata dalla cartilagine), culatta (parte superiore tra sottofiletto e coscia). Sette gli ammennicoli, le frattaglie insomma: gallina, testina, zampino, lingua, lonza, cotechino e coda. Sette le verdure: cipolline al burro, patate lesse, rape lesse, foglie di verza lessate, zucchine al burro, finocchi al burro, carote lesse. E ancora sette le salse, anche se in questo caso si esce dai confini sabaudi: verde rustica (il bagnet classico), verde ricca (con l’aggiunta di tuorlo), rossa (a base di pomodoro), mostarda di Cremona, cren, al miele (quella che i langaroli chiamano «delle api»), cugnà (simile alla mostarda, con le pere Martin sec primattrici e il mosto d’uva cotto). Un’altra salsa di rilievo è la pearà, pepata in veneto, che regna su Verona e provincia: midollo di bue, pane raffermo grattuggiato, brodo di carne e tanto pepe. Dicono sia stata creata dal cuoco di Alboino, re dei Longobardi, per ridare energia alla moglie Rosmunda, in realtà è un piccolo capolavoro di cucina povera di recupero come si dice oggi che esalta il lesso veronese dove la gallina e il cotechino hanno un ruolo importante quanto il Valpolicella nei bicchieri. I cuochi tradizionali lombardi non possono esimersi dal servire lo scamone di manzo lardellato e steccato con spicchi di aglio, in Emilia rinunciare al piedino di maiale e allo zampone sarebbe peccato mortale. A parte le varianti, è chiaro di fronte a tale impegno, che le confraternite consiglino simpaticamente al commensale di arrivare «ben vuoto, riposato e ben disposto, che non faccia calcoli di tempo e men che meno di calorie, innaffi il tutto con Barbera di due o tre anni e chiuda con una tazza di brodo ristretto e uno zabaglione caldo». Ovviamente la realtà diffusa non è questa. «Solo negli anni ’60, il bollito misto è diventato un piatto così sontuoso, prima era il pezzo di carne del contadino. Oggi è attualissimo: conviviale perché dà modo al cliente di completare la ricetta a suo piacimento e sano, se cotto sottovuoto in parti separate» spiega Christian Milone, chef della Trattoria Zappatori di Pinerolo, stella della cucina piemontese. Lui è cresciuto con il profumo del lesso: abitava sopra la trattoria del padre, dove il bollito era per tutto l’anno in carta. «Utilizzava solo la scaramella e la testina perché sono il concentrato del bollito, servendole con sette salse. Io invece prediligo la lingua per il mio omaggio alla tradizione: la massaggio una settimana con il sale, tenendola in frigo. Poi 12 ore a spurgare in acqua il sale in eccesso e la cottura sottovuoto a 60° in un brodo di carne, per 80 ore. Così non perde nulla dei principi nutritivi e del sapore, restando di color rosso vivo. La accompagno con una salsa a metà tra il bagnet e il carpione: aceto tagliato con il Moscato d’Asti, reso gelatinoso e aggiunto con acciuga, aglio nero fermentato e prezzemolo». Un gioiellino che regge il confronto con il Bollito non bollito, signature dish di Massimo Bottura, creato nel 2007: sei cubi di carni diverse (il settimo elemento è una crosta di Parmigiano), cotti separatamente a basse temperature, accompagnati dalle salse botturiane: aria di prezzemolo, marmellata di cipolle, mostarda di mele campanine gelatina di peperoni. L’originale mise en place? Semplice «Ero su una panchina al Central Park e pensavo a questo straordinario piatto della nostra tradizione racconta Massimo ho visto che sopra il verde degli alberi c’era la skyline di New York ed è scattata la scintilla». Il bollito, lo dicevamo all’inizio, è una questione di visioni.