il Giornale, 14 novembre 2015
Elogio della cravatta, che per il conte Nuvoletti era un «cappio ribelle, effimero nodo, velleitario capestro, nappa vanagloriosa, giulebbosa fibula, femmineo lezio, albagioso arcifànfano, reliquia aristocratica, relitto borghese, rottame ottocentesco, muliebre residuato di un maschio vestire»
Nudo. Ma con la cravatta al collo. Solo e solitario, naufrago su un’isola deserta o smarrito in mezzo al traffico urbano, comunque sempre con un nodo a chiudere la seta o qualunque altra stoffa che sia lunga un metro e mezzo, a coprire i piccoli bottoni della camicia. Striscia che fascia e affascina, colore e profumo assieme, modo di addobbarsi per essere più che esistere. Senza, sei un altro, diverso o, meglio, differente. Marchionne insegna, un maglione non è tutto, una cravatta lo sarebbe, come insegnava uno dei suoi predecessori, Agnelli Giovanni, l’Avvocato che sta al suddetto, nell’eleganza, come una cravatta, per l’appunto, a un cencio.
Cravatta, da croato, soldato che nel Seicento indossava quel pezzo di stoffa, forse una semplice sciarpa, attorno al collo e lo chiudeva, poi, con un nodaccio. Diventò il simbolo di nobiltà, lo portavano re e principi, cortigiani e dame, poi traslocò al popolo, tutti, giovani e anziani, uomini e donne, civili e militari, seta e cotone, lana e cachemire, carta e plastica, purché sia una e lunga, variopinta o a unita tinta, a righe oblique detta regimental o colorata di ogni fiore.
Apri un cassetto o un armadio e scopri, cerchi, scegli, al buio, alla luce fioca di un abat jour, al sole abbagliante, tastando, immaginando, prevedendo, l’abbinamento, l’occasione, l’evento, anche il nulla.
Da sera, cravattino a farfalla, per favore da annodare, sportiva da cow boy (in altri tempi o come usava, tragicamente, il senator Speroni), larga e mai larghissima da clown, la moda contemporanea la vuole stretta, strizzata e lunga come la striscia della liquirizia, robaccia senza arte né parte (non la liquirizia, si intende). Personale, privata, difficile da regalare perché nessuno può prevedere la reazione del donato che finge piacere e la avvicina al petto, recitando la parte dell’uomo felice e gaudente dinanzi al donatore o donatrice, per poi riporre l’articolo già dimenticato e poi riciclarlo ad altra persona. Ingrato.
Nuvoletti Giovanni, il conte, ne scrisse l’elogio, con l’arte della parola e dell’immagine che per lui furono una cosa sola: «Cappio ribelle, effimero nodo, velleitario capestro, nappa vanagloriosa, giulebbosa fibula, femmineo lezio, albagioso arcifànfano, reliquia aristocratica, relitto borghese, rottame ottocentesco, muliebre residuato di un maschio vestire. La cravatta è morta, viva la cravatta».
La cravatta non è morta affatto, vive e regna insieme con noi, come il conte di Gazzuolo, con baffi boriosi, albagiosi scriveva lui.
Maurizio Marinella, da Napoli, senza titoli gentilizi ma con uguale nobiltà, ne tramanda la storia da un secolo, in faccia al mare del Golfo, nel vicolo di una Milano inquieta, nel cuore sofisticato di Londra, nella Lugano troppo svizzera, dovunque e comunque consegna a quel pezzo di stoffa non soltanto un senso della vita ma, direi, del collo.
La celebro ogni giorno. Per ricordarla, faccio un nodo.