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 2015  novembre 16 Lunedì calendario

In morte di Moira Orfei

Giovanna Cavalli sul Corriere della Sera
«Una volta il mio Whisky doveva sdraiarsi a terra, aveva piegato la zampa ma non andava giù e guardava il pavimento terrorizzato. C’era uno scarafaggio. Solo quando gliel’ho schiacciato è sceso, capisce com’era sensibile quella creaturina?».
Che non era un chihuahua ma un pachiderma fifone da qualche tonnellata. La chiamavano Moira degli Elefanti, ammansiti «uno zuccherino dopo l’altro, mica col pungolo, che ti ammazzano», ma nel suo lunghissimo regno di Regina del Circo, Miranda Orfei detta Mora «perché ero scurissima, al punto che mia madre per paura di perdermi al buio mi metteva un grembiulino bianco» e infine Moira «con la i perché faceva più fine», è stata cavallerizza, trapezista, acrobata. Figlia d’arte del clown Bigolon, a sei anni già faceva i numeri con le colombe. «Il circo è sempre stato la mia vita, per avere successo bisogna essere forti e combattenti». Era nata in una roulotte parcheggiata a Codroipo, Udine, e nel suo caravan rosa è morta ieri mattina a Brescia, dove faceva tappa il carrozzone degli Orfei. A quasi 84 anni («Ma no, sono del ‘37, quelli di internet sono dei cretini») aveva già appeso piume e frustini, ma a fine spettacolo faceva il giro d’onore «altrimenti il pubblico protesta».
Bellissima, occhi bistrati da Nefertiti, sopracciglia disegnate, bocca a cuore, neo ripassato a matita e maxi-toupet «di capelli naturali e nerissimi» (noto come «la cofana», celebrata con pagina su Facebook e cavallo di battaglia di ogni drag queen), era fatale che una così fosse notata a Cinecittà, dove con peplo e calzari irretiva Ursus e Sansone nei polpettoni mitologici anni Sessanta (compreso un extratemporale Zorro contro Maciste), e così via con Profumo di donna, Casanova ‘70, Vacanze di Natale ‘90 in cui frustava il marito fedifrago Christian De Sica, fino all’ultimo cameo in Natale in India del 2003. «Ho girato quasi cinquanta film, uno più brutto e divertente dell’altro». Pietro Germi, che la diresse in Signori e Signore, vide in lei la stoffa della diva: «“Se studi diventerai come Sofia Loren”, disse, però il cinema era così noioso». Il primo fu con Dino De Laurentiis, Sotto dieci bandiere : «Portavo i capelli sciolti e ricci, fu lui a suggerirmi lo chignon e di restare così, chi cambia spesso non ha personalità».
Due li girò con il principe De Curtis ( Totò contro i Quattro e Totò e Cleopatra ). «Mi faceva una corte serrata. “Vieni con me, una notte e basta, ti accarezzo soltanto e ti regalo trenta milioni”. Allora ti ci compravi un appartamento. “Se non fossi innamorata di mio marito, l’unico a cui direi di sì saresti tu”. La frase che usavo con tutti. Mica gli potevo dire che era brutto». Corteggiatori, tanti. «Fellini era pazzo del circo, ci veniva a trovare spesso. Mi voleva per La città delle donne, dovevo ingrassare di venti chili. “Sei matto?”. Mastroianni fine, elegante, Gassman solo battutine, un signore, Walter Chiari mi ha dato due morsi sul sedere, Gordon Scott un pizzicotto». Mirabile fondoschiena «che fermava il traffico» immortalato nella foto di Mario De Biasi, scattata in piazza Duomo a Milano nel 1953 (lei in abito bianco che passa davanti a un mucchio di vitelloni) ed esposta al Guggenheim di New York. Amori, uno solo, il marito Walter Nones, statuario domatore di tigri da cui ha avuto due figli e di cui è sempre stata gelosissima. «Me ne ha fatte di corna, non l’ho mai beccato, altrimenti una coltellata gliela davo». Nel 2003 Mara Venier la volle a Domenica In in duo con Silvana Pampanini: «Dietro le quinte si beccavano. Moira era di una simpatia travolgente, leggera e allegra, ogni tanto mi faceva vedere il seno, “guarda qua, ce l’ho come una ventenne”».
Ieri sera gli spettatori hanno applaudito per dieci minuti. «Ho avuto tutto dalla vita, spero solo di morire il più tardi possibile, non ho paura, quando sarà, sarà».


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Luigi Bolognini su Repubblica

La notavi subito per il look cipria, rimmel antracite, rossetto sparato, neo (vero) e soprattutto quella massa di capelli («ci metto un’ora al giorno a pettinarli») che ispirava battute: «È ancora una donna con turbante ». «Ma quando arriva alla frontiera la perquisiscono anche sotto la crocchia?» si chiedeva Fabio Fazio. Pure così Miranda Orfei detta Moira si era creata un personaggio («ma sotto il trucco sono una brava signora »), diventare inconfondibile tutti i giorni della sua vita. L’ultimo dei quali è stato ieri. Ed è morta (a Brescia) nel solo posto in cui poteva morire, che poi è stato anche dove era nata 84 anni fa (a Codroipo): la carrozza di un circo.
Nata e morta di passaggio, e di passaggio sempre vissuta, senza mai una fissa dimora, come per i circensi veri. E lei del circo, è stata regina indiscussa, figlia della funambola Violetta Arata e del clown Riccardo, in arte “Bigolon”, madre di Stefano e Lara che ora proseguono la tradizione. E che ieri hanno deciso di andare in scena comunque: «Lei avrebbe voluto che lo spettacolo andasse avanti». Il pubblico ha applaudito per 10 minuti .Moira fu anche uno dei primi veri sex symbol degli anni Cinquanta e Sessanta di un’Italia ancora ingenuotta, che si accontentava di sognare vedendo due spalle scoperte e poco più.
In realtà la prima cosa che si notò fu il suo fondoschiena fotografato nel 1953 da Mario De Biasi con tutta la gente che si voltava al passaggio, un’immagine che finì anche al Guggenheim di New York. Nacque da lì la sua carriera d’attrice, 47 film che però girò solo «per rendere popolare il mio circo e reinvestire lì i guadagni». Erano i film in peplum, ambientati nell’antichità, tra la Roma imperiale e l’Egitto, con protagonisti come Maciste e Ursus.O parodie di pellicole celebri, come I tromboni di Fra diavolo e Il monaco di Monza.
Lavorò anche con grandi come Monicelli ( Casanova ‘ 70), Germi ( Signore e signori, «mi disse che se avessi studiato recitazione sarei diventata meglio della Loren») e Risi (Straziami ma di baci saziami, Profumo di donna). Ne ricavò anche ammiratori celebri. Uno era Dino De Laurentiis, che le scelse look e nome d’arte. Gli altri erano colleghi che ci provarono: Gassman, Mastroianni «grandi signori», addirittura Totò le promise un appartamento se si fosse sdraiata sul letto con lui solo per farsi accarezzare. «Era un uomo bruttissimo, però di gran fascino. Gli risposi “grazie Principe, ma amo troppo mio marito” e lui capì».
Il marito – mai tradito davvero, «è il solo mezzo per far durare un matrimonio» - ovviamente lavorava nel circo. Walter Nones domava a mani nude tigri e leoni («macché coraggio, è incosciente, il suo corpo è una carta geografica di cicatrici»), e anche per questo Moira ha sempre difeso la presenza degli animali sotto il tendone: «Se qualche animalista vuole lo assumo come stalliere, vedrà come li trattiamo bene. Una tigre mangia15 chili di carne al giorno, un elefante un quintale di fieno, 40 chili di crusca e avena, 20 di mele e 10 di zucchero. E poi dormono, lavorano poco, sono ammaestrati un’ora e mezzo al giorno. Perché questi signori non si preoccupano dei bambini che in Africa muoiono di fame?».
Anche lei lavorava con gli animali: prima i cavalli, poi le colombe, le tigri e infine gli elefanti, ai quali aveva fatto sorreggere con le proboscidi i fiori alla cerimonia di nozze.
Li amava così tanto da volersi far chiamare, sui cartelloni che annunciavano l’arrivo del circo nelle città, proprio “Moira degli elefanti”. «Hanno l’intelligenza di un bambino di quattro anni. E costano 160mila euro l’uno, perché dovrei maltrattarli?».
La sua genuina irruenza l’aveva portata a essere un idolo dei gay. Amore ricambiato: «Io sono truccatissima, vestitissima, pettinatissima. Insomma sono donnissima, e loro si rispecchiano in questa mia femminilità esasperata, in questa drag queen però donna. Loro uniscono l’intelligenza dell’uomo alla finezza, la gentilezza e la sensibilità della donna. Praticamente perfetti. Sono pronta a incatenarmi per una legge sulle coppie di fatto ».Ma la sua vera battaglia era proprio per il circo, al cui declino non si volle mai rassegnare: per lei era sempre e per sempre il regno della fantasia, della meraviglia, «ma ancor di più, una scuola di vita». Non l’aveva mai mollato, anche se ultimamente si limitava a comparire nel finale dello show su una carrozza.
Continuava a vivere in un caravan che quando viaggiava era largo due metri e mezzo, «ma quando arriviamo sul posto, si apre idraulicamente e diventa un appartamento largo 8 metri e lungo 24», con pareti arredate in stile moresco e kitsch, tra rasi, pizzi, decori, barocchi, specchi ovunque e statue di Padre Pio. «Io sto bene qua e basta», disse. Poteva morire altrove?

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Pierangelo Sapegno sulla Stampa

La vita di Moira Orfei s’è fermata prima che cominciasse l’ultimo spettacolo del suo circo, dentro alla grande casa mobile che portava in giro per l’Italia assieme al manifesto della sua immagine, così felliniana con quel turbante e il trucco esagerato, che attaccava come un simbolo nei muri delle città dove arrivava il carrozzone degli elefanti e dei leoni, di domatori e pagliacci, e di bambini che volano sui trapezi e nei sogni della gente. Doveva compiere 84 anni fra un mese. E’ morta serenamente, ha detto suo marito. E lo spettacolo è continuato, come se lei ci fosse ancora. Solo che non è passata, alla fine, a salutare il pubblico. Lo faceva tutte le sere. «Non posso farne a meno», diceva. «Il circo è un gran zibaldone in cui invecchi senza accorgertene. Potrei starmene tranquilla nella mia villa a San Donà di Piave, ma adoro vivere sulle ruote, e poi la mia carovana è lunga 24 metri e larga otto. E’ come una casa».
Aveva cominciato a sei anni, volando da un trapezio all’altro con acrobazie miracolose e montando a cavallo come una provetta amazzone. Era così brava e una bambina così bella che era già il numero di attrazione, assieme alle due cugine, del circo di suo padre, Riccardo Orfei, il celebre clown Bigolon. Era diventata famosa in fretta, Miranda Orfei, come si chiamava all’anagrafe. Nel 1960, a 29 anni, il circo portava già il suo nome, che era diventato Moira su consiglio di Dino De Laurentiis. Era stato il grande produttore a creare qualla sua maschera un po’ kitsch, così felliniana, che abbiamo conosciuto da sempre, con il trucco pesante e gli occhi cerchiati da un liquido nero molto denso, un vistoso rossetto, il neo accentuato vicino al naso e i capelli raccolti a mo’ di turbante. Spiegò che De Laurentiis si era raccomandato di «non cambiare mai look, perché le donne che cambiano sono senza personalità». Alla fine Moira è diventata questa immagine di un’Italia senza tempo, lei che discendeva da una famiglia di sinti e di clown, il ritratto quasi surreale di un Paese che non aveva paura di esagerare, proprio come il cinema del suo regista più famoso, Federico Fellini, quasi sognante fra i dischi in vinile e il Dadaumpa delle Kessler, e i volti acqua e sapone delle presentatrici tv, da Rosanna Vaudetti a Mariolina Cannuli e Gabriella Farinon.
In fondo era persino scontato che nel mondo della celluloide Moira Orfei conoscesse la sua seconda vita, anche se poi confessava che il cinema l’«annoiava. Però ho fatto 47 film. E Pietro Germi mi disse che se andavo a scuola di recitazione e mi toglievo questo accento bolognese, avrei potuto diventare brava come Sophia Loren». Naturalmente, lei restò quel che era. Recitò soprattutto in pellicole di genere, ma anche con grandi registi, portando la sua maschera accanto a Marcello Mastroianni in «Casanova 70», Nino Manfredi in «Saziami ma di baci straziami» e Vittorio Gassman per «Profumo di donna», tutt’e due diretti da Dino Risi. Quello che l’aveva più apprezzata forse fu Pietro Germi che la volle in «Signori&signore». Il pubblico magari l’aveva conosciuta di più nel ruolo dell’assillante moglie di Christian De Sica in «Vacanze di Natale 90», o con il grande Totò in «Totò e Cleopatra» e «Il monaco di Monza». Lei una volta disse che l’artista napoletano le voleva così bene che pensò addirittura di regalarle un appartamento. Alla fine, come un’icona felliniana, la sua maschera è rimasta a segnare un tempo senza tempo, dall’Italia della Fiat 1100 sino a quella del web e dei computer, attraversata da quel grande carrozzone sempre uguale a se stesso, con gli acrobati e i pagliacci che corrono sulle bici e saltano sui cavalli, fra leoni ed elefanti, nella polvere del circo.
E in fondo, quel suo baraccone del divertimento, il successo non l’ha mai perso. «Il nostro speaker - diceva Moira -, ha due lauree, una in economia e l’altra in ingegneria. Ma una volta entrato qui, non ne è più uscito. E’ stato conquistato da questa magia». Dev’essere il fascino dell’infanzia. Forse l’unica cosa che non cambia, anche nelle nostre nuove vite.

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Luca Telese su Libero
Moira se ne va, e ovviamente non da sola. Moira se ne va, dopo aver avuto la fortuna di diventare, in vita, l’icona di stessa: un destino che pochi hanno la fortuna di avere (o la forza di sopportare). Come Wharol, come Charlot, come il suo amico Totò.
Moira era stata, o aveva attraversato, mille cose, mille persone e mille diverse esistenze: Moira era il mondo di Dino De Laurentis, era il pianeta del circo, era la ragazza degli elefanti, era le sue folgoranti epifanie cinematografiche, era Fellini, era lo spettacolo, la televisione. Moira era domatrice, trapezista, acrobata, adrenalinica addestratrice di belve ferine (ma anche paziente educatrice di colombe), ed era anche altre innumerevoli e svariate avventure. Ricordo la sera in cui l’ho conosciuta.
Era venuta ospite a Chiambretti c’è - Piero la adorava - e io mi ero trovato ad accudirla come giovane autore: venti minuti esplosivi in onda, e due ore e mezza tra camerino, dietro le quinte e albergo, tutte fitte di aneddoti, storie inverosimili - ma chiaramente vere - battute, sogni, idee e progetti sufficienti a riempire un paio di secoli. Moira aveva già settant’anni e - giuro - si immaginava nemmeno a metà carriera: «Sono cose che farò nella maturità», diceva senza civetteria. E io: «Scusa, ma se ti consideri agli esordi dopo sessant’anni di circo, quando pensi di finire?». E lei - giuro - senza nessuna ironia, e quasi stupita: «Un circense finisce solo quando muore!». Così, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Ma era la verità.
Moira era così incarnata con l’idea del viaggio, del tendone, dello spettacolo, da diventare lei stessa una maschera senza tempo. Il suo incarnato pittato era l’evoluzione genetica di un trucco clownesco: è stata la prima donna di successo, pensateci, a superare il problema della bellezza femminile, decidendo di far scomparire il proprio corpo dietro la forza dirompente di un personaggio.
Un giorno, non so come, le avevo detto: «Ai bambini sei più familiare di Topolino». E lei, con una grassa risata: «Sì, però io mi sono disegnata da me. Vuoi mettere?». Quando finirà il nome degli Orfei, questa storia sarà un lavoro per gli archeologi. Moira se ne va, ma non da sola. Era l’idea stessa del circo, sopravvissuta alla scomparsa del circo.