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 2015  novembre 15 Domenica calendario

Con i tassi a zero, la deflazione e il QE siamo diventati tutti giapponesi. cioì: la crescita non tornerà mai. È ora di indebitarsi a lungo termine

I mercati sembrano ossessionati dall’atteso aumento dei tassi americani a metà dicembre, il primo dopo tanti anni, più volte annunciato entro la fine del 2015 e slittato a settembre per il rischio Cina. Non è chiaro perché.
Da tempo la Fed annuncia la prossima fine della politica dei tassi nulli, con aumenti minimi (0,25%) e graduali. L’aumento è già ampiamente incorporato nei rendimenti dei titoli di stato a breve, e non si capisce che cosa cambi se avvenisse a dicembre o febbraio. Sorprende anche la mancanza di consenso sulla possibile reazione dei mercati: per alcuni i tassi nulli sono essenziali per sostenere i prezzi delle attività finanziarie e immobiliari, e quindi l’effetto ricchezza che regge i consumi; per altri è l’opposto, il segnale che la Fed non ritiene l’economia ancora in grado di camminare con le proprie gambe.
La decisione della Fed sarà preceduta da una maggiore volatilità, ma il vero problema è un altro: il mondo è entrato in una fase duratura di tassi, inflazione e crescita bassi, che mette legittimamente in dubbio la reale efficacia delle politiche di quantitative easing (QE). In quattro parole: siamo diventati tutti giapponesi (che in questa situazione si trovano dal 1992). Il Giappone insegna che il vero problema è l’assenza di inflazione; e che la politica monetaria non riesce a risolverlo. Dal 2012 il governo Abe ha tentato di uscire dalla deflazione con dosi massicce di QE ed espansione fiscale: la Banca del Giappone acquista 600 miliardi di titoli pubblici l’anno, già detiene un terzo del debito pubblico e di questo passo in 5 anni arriverà al 75%. Il deficit pubblico è al 5% del Pil e il debito lordo al 240%. Eppure i prezzi al consumo non aumentano, e i tassi a 10 anni rimangono allo 0,3%, segno che il 2% di inflazione obiettivo non è credibile. Nonostante in termini reali il Giappone cresca stabilmente, la disoccupazione sia scesa al 3,4% e la produttività sia simile alla Germania, la deflazione è un grosso rischio.
Primo: senza inflazione il debito pubblico tende a esplodere perché la crescita non basta a riassorbirlo. Secondo l’Economist, con un’inflazione media al 2% dal 1992, il rapporto debito/Pil giapponese sarebbe solo l’82%. Secondo: con i rendimenti prossimi allo zero gli anziani diventano più poveri, perché risparmiano a tassi reali negativi. Terzo: il QE funziona da svalutazione del cambio e spinge le esportazioni a scapito della domanda interna. Quarto: i tassi bassi sono manna per le imprese, ma fanno aumentare le possibili distorsioni nel mercato dei capitali verso impieghi ad alto rischio.
La Cina, con sei tagli di tassi in un anno, carenza di consumi e inflazione poco sopra l’1% è sulla strada del Giappone. Come pure l’Eurozona: crescita zero dei prezzi a ottobre; dosi crescenti di QE che hanno portato in negativo i tassi tedeschi fino a 5 anni, e quelli a 10 anni quasi ovunque sotto l’obiettivo del 2% di inflazione; la crescita è trainata dalla svalutazione dell’euro, mentre i consumi languono; e i debiti pubblici crescono. Pure l’Italia ha emesso debito a 2 anni con rendimento negativo: il mercato è disposto a pagare pur di finanziare uno degli Stati più indebitati al mondo! Altro che paura del deficit.
Eppure la Bce propone altro QE, visto che negli Usa avrebbe funzionato. Legittimi i dubbi. La disoccupazione è scesa al 5%, ma è ai minimi anche la partecipazione al mercato del lavoro; la ripresa è la più lenta da 100 anni; i prezzi alla produzione decrescono; in Borsa la crescita attesa del fatturato è sotto al 2%; e i tassi reali a lunga sono vicini allo zero. Inoltre il QE negli Usa, a differenza che nel resto del mondo, ha potuto contare su un forte effetto ricchezza per le famiglie, e la Fed ha un impatto maggiore sul credito alle imprese, non essendo per la maggior parte intermediato dalle banche. Il QE, quindi, funziona meglio che altrove.
Sarebbero invece necessarie due svolte radicali. Prima: l’annuncio coordinato delle banche centrali di obiettivi di inflazione più elevati, al 4%. Non è detto che siano credibili, ma aiuterebbe a cambiare le aspettative. Seconda: che i Governi, con questi tassi reali bassissimi, emulino i privati e si indebitino a lungo termine per finanziare infrastrutture o comprare attività reali (come i fondi sovrani). In Italia, ci sarebbe il rischio che i soldi siano sperperati. Ma da un punto di vista economico resta un’occasione irripetibile per investire con ritorni anche lontani nel tempo, a beneficio delle generazioni future.