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 2015  novembre 15 Domenica calendario

Ma Helmut Schmidt odiava l’Italia?

   Mi piacerebbe conoscere il suo giudizio su Helmut Schmidt, morto in questi giorni all’età di 96 anni. Tempo fa aveva fama di odiare il nostro Paese. Corrisponde a verità? In caso positivo, vuole spiegarci il motivo?
Renato Pucci, Roma
 
Caro Pucci,
Sui sentimenti di Helmut Schmidt per l’Italia esistono indizi contraddittori. Vi è anzitutto il prestito di due miliardi di dollari, concesso all’Italia nel 1974, dopo la grande crisi petrolifera dell’anno precedente, per cui il governo tedesco pretese in pegno dalla Banca d’Italia più di 500 tonnellate d’oro. Vi è poi la feroce battuta del 1975 durante una visita alla guarnigione militare di Lüneburg. Schmidt era cancelliere da un anno, ma era stato ministro della Difesa nel governo di Willy Brandt e aveva combattuto, durante la Seconda guerra mondiale, in due zone di operazioni: di fronte a Leningrado, quando la città era assediata dalla Wehrmacht, e in Francia, verso la fine del conflitto, prima di concludere la sua vita militare in un campo di concentramento britannico. Di guerra e di armi, quindi, si intendeva. Quando la conversazione, a Lüneburg, cadde sul valore militare dei singoli popoli, Schmidt, parlando degli italiani, disse che i loro carri armati avevano una marcia avanti e quattro marce indietro. La frase provocò reazioni adirate negli ambienti militari della penisola. Parecchi anni dopo, approfittai della sua presenza a Cernobbio, in occasione di un convegno organizzato dallo Studio Ambrosetti, per chiedergli che cosa intendesse dire con quella frase. Borbottò, infastidito, che non la ricordava.
In un’altra occasione, invece, Helmut Schmidt parlò dell’Italia in termini perfino eccessivamente elogiativi. Accadde nel corso di una intervista ad Antonio Ferrari che apparve sulla prima pagina del Corriere della Sera del 18 luglio 1984. La conversazione ebbe luogo in un albergo di Venezia dove Schmidt, da due anni non più cancelliere, stava partecipando a un incontro dell’Istituto Aspen. «Devo dire – disse a Ferrari – che sono rimasto colpito, una volta di più, dalla vitalità italiana. Alcuni dei miei amici, e io stesso, nell’ambito di conversazioni private, ci siamo trovati d’accordo nell’affermare che l’economia italiana e in particolare le piccole e medie aziende si trovano in condizioni migliori di quanto non capiscano coloro i quali vivono fuori dall’Italia. Il vostro è un Paese molto dinamico. Ho l’impressione che, in questo momento, in Europa vi siano Paesi che non si trovano in situazioni altrettanto buone». Non basta. L’intervista era terminata quando Schmidt chiese a Ferrari di riaccendere il registratore. Voleva ribadire la sua ammirazione per l’Italia, «un Paese che, troppo spesso, offre all’obiettivo e all’analisi soltanto i propri difetti».
Credo di sapere che cosa, fra il 1975 e il 1984, abbia cambiato il suo giudizio sull’Italia. Nel panorama della socialdemocrazia tedesca Schmidt fu quasi sempre un coraggioso revisionista. Credeva nello Stato assistenziale, ma era convinto che la sua esistenza dipendesse da un buon clima sociale e dalla intraprendenza degli industriali. Credeva nel miglioramento dei rapporti con il blocco comunista, ma era altrettanto favorevole alla presenza delle forze americane in Europa. Quando fu chiaro che l’Unione Sovietica stava schierando nelle sue regioni occidentali una nuova generazione di missili intermedi con testate nucleari, chiese agli Stati Uniti di rispondere con l’installazione in Europa di armi analoghe. Ma una fazione del suo partito era contraria e Schmidt aveva bisogno dell’appoggio di almeno un Paese che avesse una configurazione politico-militare simile a quella della Germania. Questo Paese era l’Italia e il sostegno del governo Cossiga durante il Consiglio Atlantico del dicembre 1979 fu decisivo. Schmidt si accorse allora che il carro armato italiano aveva qualche marcia in più.