Corriere della Sera, 15 novembre 2015
Parigi deserta e irriconoscibile
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI Sul m uro è attaccata una pagina di giornale ingiallita dal tempo. «Domenica 11 gennaio 2015, c’era più gente per Charlie che per la messa». E appena sopra una di quelle scritte che avevamo tutti in testa, un adesivo blu, «Volevate uccidere Charlie e lo avete reso immortale». A terra, pochi metri più in là, ci sono invece le macchie di sangue lasciate dalle persone ferite che cercavano scampo dal Bataclan. Il vicolo è un filo teso di quattrocento metri che collega il presente di boulevard Voltaire, gli 89 morti del concerto, il massacro nei ristoranti, e un passato dimenticato troppo in fretta perché a percorrerlo fino in fondo si sbuca proprio in rue Nicolas Appert.
Il palazzo sembra abbandonato, anche se al secondo piano, dove c’era la redazione, qualche custode ha dimenticato una luce accesa. La proprietà è del comune di Parigi, racconta la signora Marie che ogni sabato viene a togliere la polvere. Hanno cercato di affittarlo quasi gratis a Le Jour, un nuovo giornale che uscirà tra pochi mesi. Niente, nessuno vuole lavorare nel posto dove vennero ammazzate 12 persone. Così la facciata è diventata sempre più grigia, i lumini sono stati portati via, a cancellare anche il ricordo. Quando accadde, la mattina di mercoledì 7 gennaio, quasi nessuno sapeva che quelli di Charlie Hebdo lavoravano lì dentro da meno di un anno. Il luogo stesso era anonimo, una palazzina nel cuore dell’XI arrondissement nascosta da una specie di ansa della strada che la teneva separata dal quartiere dei giovani, dei locali abbordabili in una città dai costi sempre più proibitivi.
Forse è stato quello l’errore. Forse hanno sbagliato, abbiamo sbagliato, a essere tutti Charlie assecondando al tempo stesso quella loro sensazione di isolamento anche fisico, credendo che quella fosse una storia unica e irripetibile, quelle vignette, quelle provocazioni. «A livello inconscio» dice Marie «ci siamo convinti che fosse un fulmine caduto su degli eterni bambini che andavano in giro bagnati. Ci siamo sentiti immuni. Che errore imperdonabile». E adesso all’improvviso è la nostra vita, sono le piccole cose quotidiane, a essere andate perdute con le tante vite umane di questo terribile venerdì 13. È tutto in un fazzoletto di un centinaio di metri quadrati. All’inizio di boulevard Richard Lenoir sono ormai mesi che i due rimanenti mazzi di fiori sul posto dove Said Kouachi sparò in testa al poliziotto Ahmed Merabet, hanno preso un colore grigiastro. Alla fine del viale c’è il Bataclan, dove suonarono i Radiohead e i Blur, e proprio di fronte, alla biforcazione con boulevard Voltaire fu scattata la foto dei capi di Stato che avanzano tenendosi per mano, quella domenica di gennaio che la Francia e il mondo marciarono insieme per chiudere le paure in un cassetto.
«Cari genitori, siamo tutti sotto choc in questo risveglio d’orrore». Le mail arrivano di primo mattino. Quelle dei presidi dei licei, «sappiate che ogni cosa verrà fatta per proteggere i nostri istituti con una sorveglianza rinforzata». Quelle dei corsi di teatro per bambini, di danza, dei centri sportivi. «A causa dei drammatici avvenimenti non ci sentiamo di tenere le nostre lezioni». In place Bastille, l’incubo di qualunque pedone, si cammina tranquillamente sulla carreggiata. Il mercatino di boulevard Richard Lenoir, uno dei più amati dai parigini, è deserto. Le strutture metalliche dei gazebo sembrano scheletri. Alla consueta proiezione mattutina per i bambini del cinema Mk2 l’atrio è vuoto. C’è ovunque una desolazione che mai, neppure per un istante, si era respirata dopo gli attacchi a Charlie Hebdo. Nel pomeriggio le camionette dell’esercito sono incolonnate lungo rue du Fauburg Saint Antoine, i soldati in mimetica attraversano le strisce pedonali a passo di marcia. In rue Charonne la montagna dei fiori cresce davanti alla Belle Equìpe, il ristorante dove sono state uccise 18 persone. Dalle fessure della serranda si vedono i tavoli ancora apparecchiati, i fori dei proiettili nei vetri.
Ma è l’intera città a essere attraversata da una vena di spaesamento, senza più certezze. Le corse dei cavalli sono annullate. La mezza maratona di domani, che contava 18.000 iscritti, pure. La conferenza mondiale sul clima del 30 novembre con 196 capi di Stato si farà ma solo perché annullarla sarebbe un segno di resa. Gli U2 non vengono più, neppure i Coldplay e i Foo Fighters, anche i metallari Motorhead che dovevano suonare allo Zenith restano a casa. Torneranno tutti, promessa solenne. Come, nessuno lo sa. «Ogni assemblea pubblica è un rischio potenziale» dice il prefetto di Polizia Michel Cadot. «Dovremo trovare un equilibrio tra le misure di sicurezza e la vita della nostra capitale».
I grandi magazzini storici come La Fayette e Primtemps, aprono per dovere e chiudono dopo poche ore per mancanza di visite. Anche lo store della Nike sui Campi Elisi fa lo stesso. Il direttore Jean Valencin cammina sul marciapiede. «Che silenzio, sembra di avere dell’ovatta nelle orecchie». La città della luce è spenta. Nessun clacson, poche auto, da Bastille alla periferia di Nanterre, casa di Marine Le Pen, ci vogliono 10 minuti, quando di solito non bastano tre quarti d’ora. «Paris, thanks for the memories», grazie per i ricordi. Il cartellone davanti al municipio è stato appeso dall’americano Jack, studente di filosofia alla Sorbona. «Ho paura che stavolta non torneremo più a quel che eravamo prima».
C’è una piccola folla radunata al Bataclan che ora sembra un assurdo confetto colorato avvolto dai blindati della Gendarmerie. Sul bancone del bar tabacchi Le Havane, una copia del Parisien di venerdì. La paura del terrorismo è il titolo di apertura. E poi, sotto, «Francia-Germania allo Stade de France per tornare a sognare». Il titolare cinese ripiega il giornale con un gesto di stizza. La nostra vita di ogni giorno, e questa sensazione che sia successo l’irrimediabile. I clienti si guardano in faccia, senza parlare. Ma pensano tutti la stessa cosa.