il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2015
Minecraft, la storia del videogioco che farà la fortuna di Microsoft ma che racconta le vicende di un antieroe, la lotta di un Davide indipendente contro i Golia del mercato
Se pensi a Microsoft, “cool” non è la prima parola che ti viene in mente (al massimo, “nerd”). Eppure Satya Nadella, amministratore delegato del colosso fondato da Bill Gates, tra le righe di un’intervista pubblicata giovedì da La Repubblica, ha spiegato proprio come può Microsoft diventare più cool agli occhi dei nativi digitali. Con una sola parola: Minecraft. Il videogame acquistato nel 2014 che secondo Nadella “in apparenza è un gioco per Xbox, in realtà è un sistema di apprendimento intelligente”. Tutto corretto, a parte l’assunto iniziale: Minecraft è sbocciato lontano dalle console, lontano dalle grandi software house, lontano dal marketing. Microsoft ci avrà anche appoggiato sopra il cappello, ma quella del gioco più venduto dell’ultimo decennio è una storia di successo che viene dal nulla.
La racconta (meglio di Nadella) Minecraft, un libro di Daniel Goldberg e Linus Larsson. Non-fiction scritta come un romanzo dai due giornalisti svedesi, con tutti gli elementi di un dramma: i reietti che diventano star, il denaro che corrompe, la lotta di un Davide indipendente contro i Golia del mercato. E in mezzo un antieroe, Markus Persson detto “Notch”, trentenne di Stoccolma capace di creare da zero uno dei successi commerciali più giganteschi dell’industria del videogame.
Inizia negli Ottanta. Il piccolo Markus ha circa otto anni quando suo padre acquista un PC Commodore: Markus inizia a giocare, ma anche a programmare. In breve tempo, i signori Persson si rendono conto che sta succedendo proprio a loro ciò che molti genitori temono: hanno un figlio nerd. La madre tenta di correre ai ripari appendendo in camera del suo ragazzo i poster dei calciatori. Presto però il problema di Markus passa in secondo piano: i genitori divorziano quando lui è appena adolescente, il padre finisce in prigione, la sorella per strada. Con la famiglia in pezzi, Markus si rifugia nella sua passione, una via di fuga destinata a diventare un lavoro. Nel 2004 viene assunto dalla Midasplayer, che propone un modello di business diverso da quello seguito dalla maggior parte delle software house: niente produzioni sfarzose, ma piccoli giochi per il web o i telefonini. Roba semplice, intuitiva, economica, senza intermediari e investimenti in pubblicità o marketing. Qualche tempo dopo, la Midasplayer sarebbe diventata King, avrebbe lanciato un successo planetario come Candy Crush e sarebbe stata comprata per cinque miliardi di dollari.
Markus se ne andrà dalla Midasplayer ben prima di quel lieto fine, per cercare il suo. Ma farà tesoro di quella esperienza, e dei contatti con i programmatori indipendenti che diventano un vero e proprio movimento culturale in Svezia nel corso dei Duemila. Sono ragazzi che non vogliono vedere solo “maschioni con grosse pistole” sulle copertine dei videogiochi, ma rimettere la creatività al centro dell’industria. I nuovi sistemi di distribuzione digitale sembrano fatti apposta per loro. E per Markus, che nel 2009 lancia la prima versione di Minecraft: solo la versione riveduta e corretta di un altro gioco indie, Infiniminer, non assomiglia a una rivoluzione. Invece.
Nel periodo in cui sul mercato stanno prendendo piede i videogame free-to-play che, gratuiti all’inizio, rendono necessari micro-acquisti per proseguire nel gioco, Markus propone un modello contrario: il gioco costa tredici dollari subito, e poi più niente. Se riuscirà a vendere venti copie al giorno, fantastica, potrebbe perfino licenziarsi dal lavoro. Un anno e mezzo più tardi, le copie vendute quotidianamente da Minecraft sono ventimila.
Persson si ritrova milioni di dollari in banca, rifiuta le offerte di lavoro provenienti dai big del settore e fonda la sua compagnia – la Mojang – per rimanere libero, diventando così un eroe per gli sviluppatori indie. Con il denaro, però, arrivano i problemi. Minecraft si basa infatti su un sistema di server indipendenti dalla Mojang, veri e propri mondi creati dai giocatori. Gestire un server diventa presto un business: alcuni iniziano a farsi pagare dai giocatori, per il solo collegamento, oppure per ottenere benefici come oggetti virtuali capaci di migliorare le performance di gioco. Così alcuni ragazzi prosciugano la carta di credito dei genitori per comprare armi virtuali più potenti, pozioni magiche e tutto quello che può servire in una partita di Minecraft. E anche se la Mojang non è responsabile dei server e non vede un euro di quei soldi, lamentele e proteste arrivano sulla scrivania di Markus.
Il tentativo di imporre regole per rimettere ordine in quel caos non funziona: l’idea che Persson possa tutelare i suoi interessi viene percepita come un tradimento. Su internet si scatena un’ondata di odio. Markus a quel punto sceglie la via d’uscita che nessuno si sarebbe aspettato: vende la sua creatura – per due miliardi e mezzo di dollari – a Microsoft, proprio la nemesi di ogni sviluppatore indie che si rispetti. Markus scrive una lettera: “Sono diventato un’icona”, dice. “Non voglio essere un’icona, non voglio essere responsabile di qualcosa di tanto enorme”.
È il finale di un potente racconto esemplare contemporaneo. Rimane da chiedersi se i soldi bastino a renderlo lieto.