MilanoFinanza, 14 novembre 2015
I conti delle banche italiane non sono poi così male
Le maggiori otto banche italiane hanno incassato 5,15 miliardi di utili nei nove mesi dell’anno, cioè quasi 3,3 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+175%). Lo ha riportato un’analisi di Value Partners, che ha spiegato le ragioni di questo aumento. In gran parte i maggiori profitti sono legati alle minori rettifiche sul credito, scese di quasi 2,8 miliardi (-24%, da 11,5 a 8,7 miliardi).
Il costo del rischio, ovvero gli accantonamenti in rapporto ai crediti, sono così calati in media sotto 100 punti base (da 126 a 96), mentre i tassi di copertura dei crediti deteriorati sono lievemente diminuiti (dal 46 al 45,8%). Gabriele Benedetto, principal di Value Partners, fa notare che il miglioramento della redditività è «soprattutto legato alla normalizzazione del costo del credito, piuttosto che a quella del core business». L’altra faccia della medaglia è infatti il calo del margine di interesse (-4,5% in media), dovuto a due fattori negativi. Innanzitutto «i tassi attivi sono sotto forte pressione dalle strategie aggressive dei grandi gruppi», osserva Benedetto. Inoltre «le banche hanno difficoltà ad aumentare i volumi di credito sui segmenti Imprese e Privati. Al momento questo è un mercato principalmente legato alle surroghe». Gli istituti fanno ancora pochi prestiti e a bassi tassi, come conseguenza della concorrenza e delle misure espansive della Bce. A ciò, secondo Value Partners, si aggiunge il calo degli interessi sui titoli di Stato in portafoglio, bilanciato da maggiori incassi da trading per le plusvalenze su Bot e Btp ceduti.
La sostenibilità dei conti economici bancari sarà legata a filo doppio alla ripresa economica, che incide sui crediti deteriorati e sull’incremento dei prestiti. In questo scenario ancora incerto, «la differenza viene fatta dalle banche che sono in grado di generare un flusso ricorrente nel tempo di commissioni legate alla gestione del risparmio», aggiunge Benedetto, ricordando che le commissioni ormai pesano per il 38% dei ricavi, una percentuale sempre più vicina al 49% del margine di interesse. Il secondo fattore di successo è il «controllo dei costi», un’attività in cui tutte le banche sono impegnate, non solo Unicredit che ne ha fatto un pilastro del nuovo piano industriale. Tuttavia per il principal di Value Partners, «la vera domanda è fino a quando si riuscirà a ridurre i costi, dato che ormai lo spazio nel fondo esodi si assottiglia, l’età pensionabile è in aumento, e alla fine tutte le uscite servono soltanto a bilanciare la crescita inerziale dei costi del personale da contratto nazionale del lavoro». Nei nove mesi dell’anno i costi sono rimasti nel complesso stabili: quelli del personale sono saliti dello 0,9%, mentre quelli amministrativi sono scesi dell’1,5%.
Dall’analisi emerge che le banche si trovano in una fase intermedia. Un forte aumento dei prestiti non è ancora partito a causa della fragilità dell’economia e dell’attenzione delle banche all’adeguatezza patrimoniale (in progresso per tutti i gruppi). Ma i segnali di miglioramento si stanno riflettendo sui flussi del credito deteriorato. I dati mostrano un rallentamento della crescita dello stock, connesso non solo alle vendite di pacchetti di prestiti dubbi. «Tutte le banche che non hanno effettuato cessioni hanno visto crescere lo stock meno del 5% mentre nei nove mesi dell’anno scorso ci si aggirava tra l’8 e 10%», commenta Riccardo Ceccotto, senior manager di Value Partners. «Un importante punto di attenzione è però il mix dei deteriorati. Infatti, quasi tutte le banche, ad eccezione di Unicredit e Intesa, hanno inadempienze probabili (i vecchi incagli) che pesano per circa il 45% del totale dei crediti deteriorati. Il livello di efficacia dei processi interni di recupero, accompagnato da una più o meno intensa ripresa economica, sarà determinante per evitarne il deterioramento a sofferenza, con il conseguente aggravio delle svalutazioni».