Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2015
Ritratto di Rohani, un conservatore pragmatico
In una foto in bianco e nero scattata nel 1978 a Neauphle le Chateau, Hassan Rohani è il secondo a sinistra alle spalle dell’Imam Khomeini genuflesso in preghiera. In quel momento ha 30 anni, non ha ancora mutato il cognome da Fereydoun in Rohani (che significa “religioso”) e insieme a milioni di iraniani si sta preparando a rovesciare lo Shah e cambiare il mondo con la prima rivoluzione islamica moderna. Oggi Roma, prima tappa nell’Unione di un leader iraniano da un decennio, gli apre le porte dell’Europa e del Vaticano: oltre al capo di Stato Mattarella e al presidente del Consiglio Renzi incontra anche Papa Francesco. Hassan Rohani è il capo di un governo chiave per affrontare gli squilibri devastanti del Medio Oriente, non può quindi sfuggire che oltre al business miliardario con una potenza demografica e petrolifera, in vista della cancellazione delle sanzioni, c’è molto altro: il dialogo con una superpotenza regionale decisiva nei destini dell’Iraq, della Siria, del Libano, del Golfo, dell’Afghanistan. Teheran è allo stesso tempo un problema, per la sua ostilità allo stato di Israele, ma anche un’opportunità per frenare la disgregazione mediorientale e il terrorismo che sta divorando interi popoli e nazioni.
Gli iraniani sono specialisti in sopravvivenza, forse perché eredi di uno degli imperi più antichi e a noi più familiari attraverso la storia greca e romana. L’Iran è un Paese in guerra da 35 anni: nel 1980, un anno dopo la rivoluzione, fu attaccato dall’Iran di Saddam Hussein in un conflitto che durò otto anni con un milione di morti. Il raìs iracheno è finito impiccato e oggi i generali e soldati della repubblica islamica cadono nella battaglie in Iraq e in Siria contro il Califfato a fianco dei soldati di Bashar Assad, dei russi di Putin e degli Hezbollah libanesi. L’Iran, protagonista principale del conflitto tra sciiti e sunniti, è stato per tre decenni il nemico principale degli Stati Uniti nella regione, ora Washington vede in Teheran un interlocutore anche se la diffidenza reciproca rimane. Ma come dice il segretario alla Sicurezza nazionale iraniana Ali Shamkani «i due stati possono comportarsi in modo da non spendere la propria energia uno contro l’altro». Qualcuno ha paragonato l’accordo di Vienna sul nucleare al crollo del Muro di Berlino. Ma è un’esagerazione. Gli iraniani, oltre il 50% sotto i 30 anni, non sono mai stati davvero segregati dietro a una a cortina di ferro e si sono tenuti al passo con il mondo, superando le censure di Internet, le sanzioni, la violenta repressione dell’Onda Verde del 2009: il 60% dei laureati sono donne, una percentuale non riscontrabile da nessuna parte del Medio Oriente.
Per il momento l’establishment punta a un modello alla cinese: sviluppo economico, stretto controllo della sfera politica e assai poca sensibilità per i diritti umani. Rohani è un conservatore pragmatico che ha due obiettivi: riportare l’Iran nel consesso internazionale, per farne una potenza economica emergente, e vincere le legislative di febbraio. Ha trattato con Obama convinto che meritava fiducia e che gli Usa non era più interessati a fare la guerra a Teheran ma a contenere, a distanza, le potenze regionali sciite e sunnite. Non una visione angelica della politica: pura realpolitik. Ma ora è in mezzo al guado. Nonostante Rohani abbia l’appoggio della Guida Suprema Alì Khamenei, ultima istanza decisionale della repubblica islamica, l’ala dura del regime, rappresentata dai Pasdaran e da una parte dell’apparato religioso e militare, fa muro. Lo smantellamento dell’impianto nucleare di Araq per il momento è stato sospeso, una parte dell’establishment vuole vedere chiaro nelle promesse americane e forse prolungare le sanzioni per impedire al presidente di vincere le elezioni. Anche e soprattutto per questo, il tour in Europa di Rohani non è soltanto un viaggio d’affari.