Sette, 13 novembre 2015
Grandi scienziati, ottimi scrittori, pessimi padri. Se Charlie Chaplin parlò con la sua sesta figlia una sola volta in tutta la sua vita (per diciasette minuti), Einstein della sua primogenita non ne volle sapere proprio nulla. E mentre Galileo Galilei non voleva essere disturbato, Rousseau si diceva felice che ogni volta che sua moglie partoriva uno dei loro pargoli, correva a portarlo all’ospizio
Nel dibattito sempre acceso sulla crisi della paternità, s’inserisce una voce originale e dissonante, e che fa luce su una categoria particolare di uomini, i geni. Grandi uomini, piccoli padri (Fazi editore), è il titolo, già esplicito, di un’indagine del giornalista, e collaboratore della Società italiana di psicologia, Maurizio Quilici. Analizzando vita e testimonianze intorno a sei giganti del pensiero, da Galilei a Manzoni a Chaplin, a Tolstoj, Einstein e Rousseau, porta il lettore a una certezza: genialità e genitorialità non sono compatibili.
I bambini non erano ancora al ponte di comando delle famiglie come oggi, la società non contemplava congedi parentali. Ma il comportamento di chi stava scrivendo la “Teoria della relatività” o I Promessi Sposi, letto oggi appare sufficiente a far perdere la patria potestà, o a incorrere nel codice penale. Figli non riconosciuti e mai visti (Einstein); neonati gettati nell’ospizio dei trovatelli (i cinque figli di Rousseau); bambinette trascurate fino alla loro morte, come nel caso di Matilde, figlia di Manzoni. Una collezione di uomini dal cuore arido.
Pare che ci sia una predisposizione a trasformarsi da ottimi maestri, nel peggiore degli allievi. È il caso di Jean-Jacques Rousseau e di Tolstoj. Il primo, l’illuminato pedagogo che nell’ Emilio ammoniva: «Colui che non può compiere i doveri di padre non ha neppure il diritto di diventarlo...», ogni volta che la sua Thérèse Levasseur partoriva uno dei loro cinque figli, correva a portarlo all’ospizio. Della sua scelta, scrisse: «Quella soluzione mi parve così buona, sensata, legittima, che se non me ne vantai apertamente, fu soltanto per riguardo alla madre».
L’autore di Guerra e Pace era ossessionato dal senso di giustizia; l’educazione era così importante, da portarlo a fondare la scuola di Jasnaja Poljana. Eppure, davanti ai tredici figli avuti da Sof’ja Bers, sembra un’altra persona.
Infanzie infelici. Occorre tenere in considerazione, (vale forse per tutti e sei) il rancore di questa donna, con cui il romanziere ebbe un rapporto conflittuale. Ma è lo stesso Tolstoj a riferire così, nei diari. Per la nascita di Tatiana, nel 1864, «Non provo ancora nulla». (Era alle prese con Guerra e Pace). Alla morte del piccolo Ivan, di sette anni, ne scrive nei termini di «Un grande avvenimento spirituale... Ti ringrazio, Padre». Sua moglie tenne sempre un diario, elencando le debolezze del marito con la discendenza. È un ritratto “moderno”, di chi è bravo a giocare, ma incapace di responsabilità. Con un sarcasmo che consolerebbe consorti di talenti ben più limitati, Sof’ja scrive. «Al genio bisogna dare da mangiare, bisogna lavarlo, vestirlo... Bisogna nutrire e educare gli innumerevoli figli che procrea, con cui però si annoia e non trova tempo di stare, perché deve comunicare con i vari Epitteto, Socrate Buddha...». A Tolstoj la moglie riconosce un’attenuante: l’infanzia infelice.
Una condizione che potrebbe giustificare il comportamento di Alessandro Manzoni. L’infanzia dello scrittore fu notoriamente triste, per la separazione tra lo spento padre Pietro e la brillante Giulia Beccaria, che si trasferì in Francia. Per la gioventù in collegio. Quando nel 1808 sposò Enrichetta Blondel, e avrà da lei tre maschi e sette femmine, invece di provare a dare l’affetto non ricevuto, Manzoni insisterà con ugual “metodo”, aggiungendo, nel caso della figlia Matilde, un sovrappiù di egoismo e pigrizia.
A otto anni Matilde raggiunge in convento la sorella maggiore Vittoria. Quando questa, diciottenne, se ne va, Matilde resiste poco; si trasferisce da Vittoria e dal cognato in Toscana. Nei dieci anni successivi, nonostante l’amore estremo di Matilde, espresso in lettere devote, l’autore dei Promessi Sposi”lascerà soltanto una volta Milano, l’amata Brusuglio, i suoi bachi da seta, per accontentare la figlia. Quando più tardi Matilde si ammalò di tisi, Manzoni attese anni, avanzò sempre una scusa, – la cattiva stagione, il colera, i malanni della seconda moglie, Teresa Borri. Matilde fece tempo a morire, a 26 anni, tra le braccia della sorella e del cognato.
Anche nella vita di Galileo Galilei c’è una figlia in convento. La primogenita, Vittoria, che a tredici anni entrò, insieme alla sorella minore Livia, dalle clarisse di Arcetri, vicino a Firenze. Virginia diventò suor Celeste. Era la più amata, anche se né lei, né la sorella, furono mai riconosciute (al battesimo il padre dichiarò che Virginia era «nata di fornicazione»; per Livia, scrisse solo il nome della madre, Marina Gamba). Se il mancato riconoscimento delle due figlie (al maschio, Vincenzio, fu concesso a 13 anni), potrebbe legarsi al disagio economico, alle difficoltà ad accasarle, l’atteggiamento che poi Galilei tenne nei loro confronti, dimostra un desiderio: non essere disturbato.
Tre secoli dopo, un altro sommo scienziato si rivela un padre complicato, Albert Einstein. Da Mileva Maric ebbe due figli ufficiali, e una bambina, Lieserl, nata nel 1902, prima del matrimonio. Non soltanto non la riconobbe, e non volle mai sapere nulla su di lei. A quanto dicono biografi e studiosi, Einstein fece di tutto perché ogni traccia fosse cancellata.
Nei confronti dei due maschi legittimi, l’atteggiamento fu scontante. Il maggiore, Hans Albert, scrisse che il padre lo ostacolava nelle sue scelte (sentimentali e di studio). Il minore e fragile Eduard, ebbe una vita tormentata di suo, con disturbi che lo portarono al ricovero in clinica psichiatrica, a Zurigo. Einstein, dopo l’insistenza della madre (da cui si era separato per sposare la cugina Elsa), andò a trovarlo una sola volta. Per altri 22 anni, il figlio attese, vanamente, una seconda visita.
Biografi, la stessa Mileva, amicizie importanti – Freud, che lo conobbe, disse: «Einstein capisce di psicologia quanto io capisco di fisica» – tutti concordano su un punto. Se il rapporto con l’altro diventava complesso, il padre della Relatività si allontanava. «Desidero stare in pace» era la sua risposta.
Un altro caso paradossale è quello di Charlie Chaplin. Lui che aveva guardato il mondo con gli occhi dei bambini, il regista del Monello, non fu molto tenero con gli undici figli avuti da quattro mogli; otto con la quarta, Oona O’Neill. Il loro figlio Michael aveva soltanto 19 anni, quando in un memoir scrisse: «Essere figlio di un grande uomo... è come vivere accanto a un immenso monumento; uno passa la sua vita a girarci attorno, restando nella sua ombra o evitandola». Jane, la sesta figlia, ricorda che l’unico colloquio avuto con il padre, durò 17 minuti. Per il resto «La mia vita con lui non è stata che silenzio».