Sette, 13 novembre 2015
Vivere a Baghdad: tra bombe, urla e corpi in brandelli, ci sono anche quelli che vivono e che difendono la loro esistenza con i denti e le unghie: «E così scopri bar aperti nei viottoli più impensabili, negozi semisegreti, taxisti che s’industriano a trovare la benzina sul mercato nero, bambini che vanno a scuola, non hanno paura di giocare nelle strade a rischio attentati, gente che si ama e che si odia»
Una verità molto elementare per chi viaggia e lavora nelle zone di guerra è che quasi sempre la realtà è migliore della sua rappresentazione. Per il pubblico che s’informa da lontano, guarda la televisione o legge i giornali dall’estero, la situazione può apparire terribile, e sovente lo è davvero: quartieri devastati, famiglie distrutte, trasporti difficili o impossibili, tagli all’energia, all’acqua, mercato nero, feriti che non possono venire curati, la morte nel suo banale ripetersi quotidiano. Eppure, spesso, anche nelle situazioni più difficili, la popolazione si adatta, ritaglia spazi di normalità, s’inventa persino momenti di svago e gioia.
È incredibile scoprire quanto l’essere umano sia in grado di accettare tragedie che solo il giorno prima parevano insopportabili. Noi che guardiamo le immagini del massacro provocato da un’auto bomba ci concentriamo sulla scenario immediato della devastazione, così come tradotto dalla telecamera, ma dimentichiamo che a poche decine di metri di distanza la vita continua. C’è chi muore. Ci sono il selciato chiazzato di sangue e brandelli di corpi, i vetri infranti, le auto in fiamme, il caos e le urla. Però s’incontrano anche i tanti che vivono. Anzi, più la loro esistenza è messa a rischio e più la difendono con i denti e le unghie. E per farlo devono nutrirsi, comunque costruirsi un ricovero tra le macerie, garantire se stessi e i loro cari. Scopri bar aperti nei viottoli più impensabili, negozi semisegreti, taxisti che s’industriano a trovare la benzina sul mercato nero, bambini che vanno a scuola, non hanno paura di giocare nelle strade a rischio attentati, gente che si ama e che si odia. Ci sono persino palestre aperte con il meglio delle attrezzature importate dall’Italia, ristoranti-bunker che chiudono prima del buio, oppure restano aperti tutta notte.
Così è stato, ed è oggi più di prima, a Baghdad. È vero che il romanzo-vetrina della capitale resta quel Frankenstein a Baghdad del giovane Ahmed Saadawi, che a poco più di un anno dalla celebrità si concede col contagocce per le interviste. La storia surreale, melanconicamente macabra, racconta di un essere ributtante costruito con pezzi di corpi maciullati dalle autobomba che si vendica contro gli attentatori. Una sorta di Robin Hood dell’orrore in chiave anti-jihadista. Ma Baghdad è anche tutt’altro. Prendi per esempio il Mansour Mall, vero tempio dello shopping ultima moda su sei o sette piani serviti da ascensori super-veloci di cristallo, tutto marmi, vetrine scintillanti, il meglio dei capi d’abbigliamento italiani, francesi, turchi, con i negozi di articoli sportivi che vendono Nike da jogging per non meno di 130 euro al paio. Ci trovi sale-cinema sempre gremite con i più recenti film americani, pizze non male, oltre a locali che servono cibo indiano, giapponese, caffè e pasticcerie dai banchi forniti di dolci turchi al miele e torte Sacher che forse saranno anche taroccate, ma alla prova dei fatti si rivelano più che mangiabili. Nelle zone dei tradizionali quartieri cristiani, come Saadoun e Rusafa, oggi semivuoti visto cha la maggioranza degli abitanti sono fuggiti nel nord curdo, o addirittura emigrati all’estero, hanno riaperto alcune vecchie rivendite di bevande alcoliche.
Nel 2005-2008, al top della guerra civile interna, quando i morti mensili nella regione della capitale superavano quota tremila, avevano praticamente chiuso tutte. Ultimamente però c’è chi sfida i divieti delle milizie sciite pro-iraniane ed è pronto a ignorare le minacce dei simpatizzanti sunniti per Isis.
Il grande riciclo. Un capitolo particolare necessita il nuovo Ristorante galleggiante di Jadriya. Un barcone con tre ponti che di notte s’illumina come un albero di Natale. Colori dominanti riflessi nelle acque scure del Tigri e sullo sfondo delle notti stellate sono il viola e il blu. Un poco pacchiani se vogliamo, ma in tono con l’ambiente chiassoso, le musiche arabe a tutto volume e la voglia di divertimento, misto a oblio. «Sembra di stare sul lungo Nilo», esclamavano entusiasti da un gruppone famigliare venuto a celebrare il fidanzamento delle due figlie pochi mesi fa. Forse esageravano. Ma se ci si concentra solo sul barcone, un poco di ragione ce l’hanno. I proprietari non hanno badato a spese. Tra i tavoli si bisbiglia siano vecchi sostenitori di Saddam Hussein che si sono riciclati con il nuovo governo a maggioranza sciita. Ma non è escluso siano solo dicerie. A Baghdad oggi si può sostenere tutto e il suo contrario. Un’ubriacatura di parole che ancora, tutto sommato, permane in reazione agli anni della dittatura affossata ormai nel lontano 2003, nonostante gli attacchi contro i media, i giornalisti assassinati, gli “imbavagliamenti” caratterizzanti poi il lungo mandato dell’ex presidente filo-iraniano Nouri al Maliki, dimessosi solo nell’agosto 2014.
Le rivincite della società. Il luogo evoca memorie e racconti significativi. Sino all’invasione americana il Tigri, nel tratto in cui attraversa la capitale, era monopolizzato dal regime. Sulla sua sponda occidentale si affacciavano i Palazzi presidenziali assieme agli uffici più importanti della dittatura. Non ultimo quello massiccio di color ocra dei servizi d’informazione controllati da Qusay (uno dei figli del dittatore) colpito sin dalle prime notti di “bombardamenti intelligenti” da parte dei missili Usa. Gli unici battelli erano quelli minuscoli dei pescatori, vecchi navigli in legno con fuoribordo fatiscenti letteralmente tenuti insieme con il fil di ferro. C’era però un grande barcone di lusso ormeggiato sulla riva presso le residenze private dei capi del regime. Chiunque viaggiasse in auto nelle sue prossimità, specie sui ponti da cui si domina l’area dall’alto, aveva il divieto assoluto di fermarsi. Persino transitare a bassa velocità guardando nella direzione delle zone presidenziali era considerato sospetto. Potevi venire arrestato dalla polizia e dalla pletora di agenti e informatori in borghese. Il barcone veniva utilizzato dal presidente e dai suoi figli per le feste private ed eventualmente per ospiti di riguardo. Così il nuovo Jadriya rappresenta una sorta di festosa riappropriazione della città e del fiume da parte dei suoi abitanti. Perché non va dimenticato che nonostante tutto l’antica capitale del Califfo al-Mansour e poi della dinastia Abbaside (in competizione con Damasco), mantiene un’anima profondamente laica, quasi ludica. E ciò nonostante i quartieri divisi dai muri di cemento, nonostante le lotte settarie tra sciiti e sunniti, di cui Baghdad è stata la città più insanguinata per eccellenza sin dall’apparire del primo islam strutturato; nonostante gli attentati, le stragi, il nuovo fanatismo e le lotte di religione.
Il Film Festival delle donne. Un’anima che va cercata, studiata, riscoperta. La si ritrova viva e radicata alla Facoltà di Arte nell’università cittadina distribuita tra i campus di Waziriya e Kasra. Saddam ne fece un veicolo di propaganda per il regime, furono i suoi artisti a sviluppare lo stile particolare incentrato sulla valorizzazione architettonica e artistica del passato assiro-babilonese. Se ci pensiamo bene, questo è un elemento che tra l’altro dà il senso del carattere ambiguo e contraddittorio del sostegno che gli ex baathisti sunniti danno oggi ai jihadisti fanatici e iconoclasti di Isis. Com’è possibile che i valorizzatori dei resti archeologici pre-islamici nazionali, gli ideatori e promotori dei musei archeologici in tutto il Paese, siano oggi tanto disposti a sposare la devastazione a colpi di mazze ferrate e bombe di quegli stessi siti? «Noi sosteniamo l’Isis contro l’Iran e le milizie sciite. Quando avremo vinto ce ne disferemo», rispondono loro. Forse ci riusciranno, ma probabilmente no. Sta di fatto che, contro le censure imposte da imam e partiti religiosi di ogni sorta, alla Facoltà di Arte si disegnano ancora nudi, si scolpiscono statue guardando tutt’ora alle scuole artistiche occidentali e alle ultime avanguardie. Ci sono studentesse senza velo. Artisti come il celebre pittore 57enne Belassem Muhammed studiano i movimenti del corpo e le sue parti intime, il sesso e il desiderio vengono raffigurati senza censure.
Un’esposizione disincantata del corpo e della gioia di vivere che non resta chiusa nel recinto dell’università. Al Teatro Nazionale si è appena conclusa la decima edizione del Baghdad Film Festival, con una sezione speciale per registi e attori donne. Ogni venerdì pomeriggio decine di amanti dello jogging si danno appuntamento al parco Zawra e nella zona verde di Abu Nuwas, sul lungo Tigri, per gli allenamenti. Non va dimenticato che per lunghi anni dopo la guerra del 2003 questi paraggi rimasero totalmente abbandonati. Lo Zawra, prospicente l’hotel Rasheed, era temuto come luogo privilegiato dalla guerriglia. Tra gli alberi dello zoo devastato venivano sparati i colpi di mortaio verso i compound occidentali asserragliati nella “Zona Verde” e specie contro gli edifici blindati dell’ambasciata americana. Ad Abu Nuwas, proprio di fronte al Palestine e lo ex Sheraton, gli alberghi in cui furono costretti dal regime i giornalisti stranieri al tempo dell’invasione americana, hanno riaperto i ristorantini di Masgouf, il pesce tipo carpa che viene pescato nelle acque dolci verso i confini di Turchia e Siria. Può capitare così che si finisca per correre tra i picnic delle famiglie sedute sull’erba tagliata corta, con il profumo del pesce alla brace misto al fumo delle carbonelle.
Il trucco c’è e si vede. È una normalità che fa bene alla capitale. Prima della guerra, fine settimana e feste potevano essere occasioni per passeggiate e battute di caccia lungo i fiumi, oppure gite di più giorni sulle montagne curde nel nord. Ora l’impossibilità di viaggiare tende a valorizzare ciò che la città offre. Allo Hunting Club, tradizionale luogo di ritrovo per le famiglie benestanti, le signore sfoggiano make up elaborati, visi curati come vuole la tradizione locale. Non a caso hanno riaperto alla grande le cliniche estetiche. Con un giro d’affari che è in competizione con quelle tradizionali in Libano, Tunisia, Marocco e del Cairo. Lo Alawiya club è come sempre riservato ai più ricchi. Ci trovi campi da tennis curati e menù internazionali con l’arrivo pressoché quotidiano di verdure e pesce fresco dai mercati del Golfo. Venne costruito dagli inglesi quasi un secolo fa. E ha mantenuto il suo stile coloniale molto retrò.
Ma la crisi economica si fa sentire. I prezzi sono diminuiti rispetto ai primi anni seguiti all’invasione americana. Allora una cena poteva superare facilmente i 100 euro a testa. Adesso la caduta del prezzo del petrolio si riverbera crudelmente sull’economia irachena. E tuttavia ciò non inibisce il fiorire della moda delle motociclette di grossa cilindrata. Modelli preferiti: le Harley Davidson oltre i 1.200 cc. Il fenomeno necessita di una spiegazione. In genere i dittatori del mondo arabo hanno sempre vietato le moto sulle strade dei loro Paesi. Le uniche permesse erano quelle per la polizia. Il motivo? «Possono venire utilizzate dai terroristi. Con la moto la fuga nel traffico è facilitata», rispondono di prammatica i portavoce. Saddam non faceva eccezione. Le moto oggi a Baghdad riassumono dunque il desiderio di libertà, di individualismo senza limiti e non più imbavagliato dai provvedimenti del regime. Gli ultimi modelli scintillanti sono esposti nelle vetrine dei rivenditori a Karradah e Mansour, i quartieri alti del commercio. È uno dei paradossi più stridenti. I più critici dell’invasione americana sostenevano un tempo che era tutto finalizzato al petrolio. «Washington abbatte Saddam per impadronirsi delle sue riserve energetiche», gridavano le piazze del mondo unite contro la guerra. Il curioso è che, al posto di importare l’oro nero iracheno, adesso Washington esporta motociclette in Iraq.