Panorama, 12 novembre 2015
Evadere il fisco con il tartufo
Per il fisco il tartufo non è un fungo qualsiasi. I cavatori, però, se la ridono. Risultato? In Italia sconta un’imposta cinque volte maggiore rispetto a quella di Paesi come la Francia e la Croazia. Trattato al pari di un bene di lusso, sul tartufo l’erario carica un’Iva (non detraibile) del 22 per cento, contro il 4 o 5 applicato nel resto d’Europa. Così i prezzi al consumo schizzano alle stelle. Per un bianco d’Alba, il più pregiato, si a pagano fino a 4.500 euro al chilo. Nei ristoranti, invece, se ne spendono almeno 30 per una grattatina sulla pasta.
Una vessazione che non riguarda i cavatori, coloro che i tartufi li raccolgono. Già perché sotto il profilo fiscale il loro è uno dei lavori più belli (e redditizi) d’Italia. Da noi raccolta e commercializzazione dei tartufi sono regolate dalla legge 752 del 1985. Poi c’è il comma 109 dell’articolo 1 della legge 311 del 2004, che disciplina gli acquisti dai raccoglitori occasionali, imponendo a chi compra di emettere una fattura con Iva (indetraibile)al 22 per cento, mentre il cedente è esentato da qualsiasi adempimento. Da qui scaturisce il mercato nero del tartufo, che di pagare le tasse non ne vuol sapere finché l’aliquota non verrà rivista al ribasso. O finché non interviene la Guardia di finanza, che a Pesaro martedi 10 novembre ha disposto il sequestro preventivo dei beni per 1,8 milioni di euro a quattro rappresentanti di tre aziende di Acqualagna, in provincia di Pesaro Urbino, per un giro di fatture fittizie relative all’acquisto di tartufi.
Quasi metà tartufo (il 44 per cento) sfuma in tasse e a pagare il prezzo più alto e proprio il consumatore. Da questa tagliola, al contrario, escono incredibilmente indenni i cavatori, oltre 200 mila in tutta Italia. E la questione è più seria di quanto possa sembrare. Al punto che il viceministro delle Politiche agricole, Andrea Olivero, ha appena annunciato che il governo aprirà un «tavolo nazionale» sul tartufo, in vista di una nuova legge che regolamenti il settore: un business da 400 milioni di euro l’anno. Eppure l’Unione europea con la Politica agricola comune 2014-2020 annovera il tartufo tra i prodotti agricoli. Se anche in Italia venisse riconosciuto come tale, il re dei funghi, oltre che a beneficiare della revisione dell’Iva, entrerebbe nel programma agricolo comunitario e avrebbe diritto ai finanziamenti europei, fondamentali per lo sviluppo di metodi di coltivazione alternativi, come quelli con piante micorizzate (si mescola una poltiglia di tartufi al terreno in cui vengono fate crescere piantine), che in una prima fase sono estremamente onerosi.
«Ma se non è un prodotto agricolo il tartufo, allora cosa lo è?» chiede polemica Olga Urbani, alla guida del Gruppo Urbani tartufi, il colosso umbro presente anche a New York, Chicago, Los Angeles, Las Vegas e San Francisco, che detiene circa il 70 per cento del mercato mondiale. Il resto se lo contendono altre 200 aziende sparse per l’Europa, tra Francia, Spagna e Italia. Anche grazie al suo ruolo, Olga Urbani siederà al tavolo delle trattative annunciato dal governo. «La normativa italiana» dice «avvantaggia altri Paesi europei dove si raccoglie il tartufo, e dove l’Iva è più bassa e detraibile. Per questo auspichiamo che la nuova legge riporti l’aliquota al 4 per cento, così da arginare il sommerso, e che venga stabilito un adeguato tetto di riconoscimento dei costi per i cavatori. Ma per salvare il settore si deve intervenire con urgenza».
Della questione si discuterà presto in Parlamento. Entro novembre è prevista un’audizione alla Camera, sollecitata dagli operatori del settore e in particolare dalle aziende che si occupano della commercializzazione del tartufo. Unite nell’affermare che così non si può andare avanti. E non solo per colpa delle tasse. È tutto il comparto che è un Far west. Se al re dei funghi venisse riconosciuto lo status di «prodotto agricolo», come nel resto d’Europa, anche la tracciabilità ne gioverebbe. Oggi la tracciabilità si basa solo sulle dichiarazioni del cavatore. Cui nulla impedisce di raccogliere tartufi nelle Marche e spacciarli per piemontesi alla vendita e massimizzare il profitto.
Lunghe battaglie di sensibilizzazione finora non hanno prodotto risultati. Se nemmeno in futuro le cose dovessero cambiare, per il tartufo made in Italy rischia di mettersi davvero male schiacciato dalla concorrenza di Francia e Spagna: oggi per un etto di bianco d’Alba del Piemonte si spendono sui 400 euro. Di questi, circa 160 vanno allo Stato, altrettanti al cavatore. Quel che resta finisce nelle tasche delle aziende che lo commercializzano, ma non è che un misero bottino. E il consumatore? Se vuole risparmiare, gli conviene comprare i tartufi all’estero.