Panorama, 12 novembre 2015
Il tesoro nascosto del «clan Lula»
Il «clan Lula». Il quotidiano economico argentino Infobae titola usando una terminologia più consona a Cosa nostra che alla politica, sintetizzando il modus operandi dell’ex presidente del Brasile Luis Inácio Lula da Silva e del suo entourage. Una parabola miserabile quella dell’ex operaio massimalista di sinistra che scalò il potere brasiliano e che vuole ricandidarsi nel 2018 nonostante la puzza di marcio. «A patto che non venga arrestato prima» puntualizza Mario Sabino Filho, giornalista del sito di politica O Antagonista, una vera Bibbia per chi vuole seguire tutte le vicissitudini giudiziarie del «clan Lula». «Per me c’è il 40 per cento di possibilità che finisca dietro le sbarre nel 2016, mentre escludo che l’arresto possa avvenire già quest’anno». Il motivo è molto semplice: 10 degli 11 dei giudici del Supremo Tribunale federale sono stati scelti da Lula o dalla sua delfina Dilma Rousseff. Inoltre i due controllano anche la Corte superiore di giustizia, come dimostra l’allontanamento a tempo di record della giudice che ha «osato» far perquisire l’ufficio di Luís Cláudio, l’ultimogenito figlio di Lula, interrogato lo scorso 4 novembre dalla polizia.
La giudice è già «saltata», sostituita in meno di una settimana, ma Lula jr non ha convinto gli inquirenti. Il suo compito, del resto, era titanico: spiegare come mai Mauro Macondes Machado, avvocato lobbista in carcere dal 26 ottobre nell’ambito di un’inchiesta su frodi milionarie al fisco, abbia pagato alla sua azienda, che si occupa solo di marketing sportivo (in particolare di football americano), 2,4 milioni di reais, circa 600 mila euro. E mentre Luís Cláudio si arrampicava sugli specchi con la polizia di San Paolo, a Lisbona, in Portogallo, il quotidiano Público rivelava che per approvare la fusione tra Portugal Telecom e la brasiliana Oi, uomini vicini a Lula avevano chiesto una stecca da 50 milioni di euro da depositare a Macau. L’accordo, sponsorizzato dall’ex premier lusitano socialista José Socrates (in carcere per corruzione dal novembre 2014) fu siglato nel 2010. Il principale artefice di quel business, l’ex braccio destro di Lula, José Dirceu, oggi è in galera per associazione a delinquere, al pari del tesoriere del Pt, il partito lulista da cui arrivò la richiesta della stecca, a detta di Público. Non bastasse, la scorsa settimana, la rivista più letta in Brasile, Veja, ha messo in copertina l’ex presidente verde-oro vestito da galeotto. Al posto delle strisce i nomi eccellenti di parenti stretti, amici d’affari, collaboratori a libro paga e oscuri lobbisti finiti sotto la lente degli inquirenti che lavorano all’inchiesta «Lava Jato», la Mani pulite brasiliana.
I 2,4 milioni di reais di Lula jr e i 50 milioni di euro su Macau sono solo la punta dell’iceberg di una corruzione che coinvolge pure altri congiunti dell’ex presidente, proprietari di almeno una decina di immobili intestati a prestanome coinvolti della Mani pulite verde-oro. Una nuora avrebbe ricevuto 2 milioni di reais, frutto di una tangente, mentre un figlio della sua prima moglie, da semplice manovale ha firmato contratti milionari in Angola e Cuba alla multinazionale Odebrecht, il cui presidente Marcelo è in galera e per cui Lula è sospetto di traffico d’influenza internazionale. «Per questo “accerchiamento” Lula è molto preoccupato» fanno sapere a Panorama fonti vicine all’ex presidente, anche perché un’altra rivista, Época, ha rivelato che sul conto di una sua azienda sono transitati oltre 52 milioni di reais dall’aprile 2011 al maggio di quest’anno. «La corruzione in Brasile c’è sempre stata, ma il Pt l’ha istituzionalizzata» spiega lo storico Marco Villa, dopo che nello scandalo «Lava Jato» sono entrati questa settimana anche l’uomo comunicazione dell’Istituto Lula, il responsabile delle sue campagne elettorali e un imprenditore di bestiame intimo dell’ex presidente. «Da povero che era oggi Lula è straricco» accusa Hélio Bicudo, uno dei fondatori del Pt, che sottolinea l’anomalia di un altro figlio, tal Lulinha, passato da «impiegato dello zoo a imprenditore milionario». «Bisogna distinguere tra corruzione per finanziare un partito e per arricchirsi personalmente» spiega l’ex ministro cileno Sergio Bitar, democristiano di sinistra alleato di Allende, perseguitato da Pinochet, autore di Dawson Isla 10 (Sandro Teti editore). «In ogni caso il ciclo del Pt in Brasile a mio avviso è finito».