il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2015
De André e la "prova del ragazzo del bar", che lo indusse a rifare "Don Raffaè". Un nuovo cofanetto raccoglie tutti gli album in studio e i singoli del cantautore genovese
Milano, viale Papiniano. È una tarda sera del 1996 e Fabrizio De André sta urlando a squarciagola in mezzo alla strada: “Sono la pecora sono la vacca!”. La gente lo guarda stranito. Non sa, non può sapere, che sta cantando Princesa circondato dai rumori del traffico per renderla più vera. Non sa, non può sapere, che quel brano aprirà l’ultimo album in studio della sua carriera. Proprio “In studio” è il titolo di un cofanetto di 14 cd in uscita oggi per la Sony Music (99 euro). Raccoglie i 13 album in studio di De André e tutti i singoli. Non ci sono inediti, perché De André non ne ha lasciati, ma l’opera è impreziosita da un libro a colori di 196 pagine con foto e dichiarazioni. Quarant’anni di musica, coltivando spigoli e un’idea sacrale della parola: “Bisogna stare attenti a quel che si canta e si scrive, perché poi la gente ci crede”.
È l’insegnamento più grande che De André ha lasciato a Ivano Fossati, che ne ha incrociato spesso il cammino. Già nel 1978 De André raccontava: “Incido molto poco (...) ma se non ci fosse questo editore a strapparmi i nastri di mano, inciderei ancora meno. Mai, forse. La mia continua ricerca della verità non approda mai ad una conclusione: appena ho fatto un testo, una canzone, ecco che vorrei cambiare, aggiornare. E appena esce il disco vorrei distruggerlo: mi sembra inutile, sorpassato”. Nel suo canzoniere non c’è mezza sillaba sprecata. Uomo per niente facile, in qualche modo condannato a un’idea faticosissima di perfezione.
Diceva di sé nel 1993: “A parte Dori che non ho mai voluto cantare, l’unico esemplare con cui oggi posso dire di avere un rapporto di scambio della verità sono io stesso. Diffidate di me”.
Lavorare con lui era emozionante e faticoso. “Spesse volte – ha raccontato Piero Milesi, arrangiatore di Anime salve – su un brano che era ancora imperfetto proprio perché era in fase di elaborazione, in modo lapidario diceva: ‘È tutto una merda’. E lì veniva fuori il lato distruttivo”. Spigoloso, ma corretto. “Seguiva ogni parte del lavoro”, ricorda Paolo Iafelice, che curò i missaggi di quel disco. “In studio gli prendeva una rigidità, una severità che incuteva timore, ma fuori era diametralmente opposto. Era esigente, ma sapeva restituirti quanto ti chiedeva”. De André teneva molto al parere degli ascoltatori occasionali. Era la “prova del ragazzo del bar”. Una prova che terrorizzava i musicisti. “Il punto di vista dei collaboratori era importante, ma in qualche modo cerebrale”, ricorda la moglie Dori Ghezzi. “Fabrizio voleva che le sue canzoni piacessero anzitutto a chi entrava per caso in studio. Era un ascolto più istintivo, più emotivo: forse più attendibile”.
La storia di De André è dipesa anche da molti ragazzi del bar. Uno di questi, nel 1990, entrò in studio mentre tutti stavano ascoltando la versione definitiva di Don Raffaè. Lasciò le pizze e andò via. De André si incupì e poi disse: “Va rifatta da capo”. Pagani, allibito, chiese perché. “Perché quel ragazzo non ha sorriso ascoltandola”. La rifecero. E venne molto meglio.