ItaliaOggi, 13 novembre 2015
Quando la tecnologia giova e quando genera mostri. Considerazioni sull’evoluzione della robotica e sull’ignoranza della specie umana
Trovandosi al di fuori del suo terreno giurisdizionale proprio, che è quello della normativa bancaria, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco ha potuto usare toni poco «banco-centralesi» per lanciare un allarme molto severo sul rischio disoccupazione comportato dalla «terza rivoluzione industriale» in arrivo: «I tempi stanno cambiando», ha detto, «la robotica e l’innovazione tecnologica minacciano di rendere obsoleti nei prossimi 10-20 anni un posto su due», ha detto dibattendo con il premio Nobel per l’Economia Angus Deaton. Avete letto bene! È clamoroso! È un allarme che riguarda e minaccia tutti noi e le nostre famiglie. Ed è clamoroso anche che un simile allarme non sia stato messo in evidenza dai media. Ma allora, se un uomo prudente e assennato come il governatore lancia un avvertimento simile, com’è possibile che non se ne occupino i governi di tutto il mondo e, soprattutto, i sindacati di tutto il mondo?
La storia, ah, se qualcuno di questi qui, governanti e sindacalisti l’avesse letta almeno sui Bignami!, insegna che la tecnologia giova sempre all’umanità sul lungo e lunghissimo termine ma sul breve, se non gestita, non moderata e modulata, genera mostri. Non dovremmo permettere al «teorema di Moore» (la moltiplicazione della capacità di calcolo dei microprocessori in proporzionalità inversa con le loro dimensioni e il loro costo) di devastarci la vita senza che nessuno lo moderi e lo moduli. La tecnologia accelera esponenzialmente la produttività delle fabbriche e riduce clamorosamente il costo complessivo del prodotto, e in particolare il costo del lavoro, perché elimina almeno la metà dei ruoli oggi affidati agli esseri umani. Questo sta già accadendo, non è uno scenario futuribile.
Ma questo che cosa comporta? Che da un lato si produce molto di più con molti meno costi, e dall’altra si riduce drammaticamente il pubblico di coloro che disporranno di redditi sufficienti per comprare quei beni. Il che, alla lunga, farà andare in crisi anche i produttori. Queste considerazioni fanno rabbrividire i liberisti puri i quali temono come il fumo negli occhi anche il solo porre le domande che potrebbero indurre risposte dirigiste: «Si fa così, si fa colì!». Per loro, la migliore politica economica è quella inesistente: «Lasciamo fare al mercato, il mercato provvederà al meglio». Forse. Ma se vent’anni fa Jeremy Rifkin scriveva già La fine del lavoro, preconizzando esattamente questi scenari, e se il Papa predica il superamento della «mera logica del profitto» e se Nicholas Negroponte, altro pericoloso bolscevico, dice che «la competizione è l’origine di tutti i mali», qualche riflessione in più andrebbe forse fatta.