Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2015
Petrolio e metalli ai minimi, il problema è la contrazione della domanda cinese
La tempesta sui mercati delle materie prime non è finita e la sensazione che sta prendendo corpo è che bisognerà aspettare molto tempo – e vedere molti più sacrifici da parte dei produttori – perché le acque si calmino definitivamente. Come nei momenti più drammatici dell’estate scorsa, gli investitori sono tornati ad accanirsi sul settore bersagliando di ordini di vendita soprattutto i metalli, il petrolio e le società che li producono. Il Bloomberg Commodity Index, che riflette l’andamento di prezzo di 22 prodotti quotati, sta calando senza interruzione da nove giorni ed è ben al di sotto dei livelli che aveva toccato durante la recessione globale: addirittura è ai minimi dal 1999, quando l’esplosione dei consumi cinesi non era neppure comparsa sul radar degli analisti. L’oro, nonostante un clamoroso risveglio della domanda di barre e monete, ieri è affondato ai minimi da quasi sei anni, 1.074,26 dollari l’oncia. Anche i metalli non ferrosi sono tornati a quotazioni che non vedevano dal 2009, guidati al ribasso dal rame – di nuovo sotto 5mila dollari per tonnellata – e dallo zinco, che ha più che cancellato il rally con cui solo un mese fa aveva accolto i maxi-tagli di produzione da parte di Glencore. Il petrolio sta puntando con decisione verso i minimi di agosto (che segnavano il prezzo più basso dal 2009): ieri c’è stato un altro tonfo di oltre il 3%, che ha portato il Brent sotto 45 dollari al barile. Anche nel caso del greggio, come per molti metalli, la produzione sta frenando: quella di shale oilnegli Stati Uniti è già diminuita di oltre mezzo milione di barili e per la prima volta da molti mesi anche l’Opec – a causa di difficoltà in Iraq – ha fatto un passo indietro. Il problema, per il petrolio come per i metalli, è che l’offerta non sta calando in modo abbastanza forte da riequilibrare il mercato. E si tratta di un fatto oggettivo, non di un pretesto per le scommesse ribassiste di qualche speculatore.
Anche se il dollaro forte sta facendo la sua parte nell’amplificare i ribassi, per le materie prime la tessera più importante del puzzle è probabilmente la Cina. Il gigante asiatico non è più famelico come un tempo, anzi negli ultimi tempi sembra davvero affaticato: la sua produzione industriale in ottobre (dato che ha preoccupato moltissimo gli investitori) ha decelerato per il quarto mese consecutivo, crescendo “solo” del 5,6 per cento. Gli acquisti di materie prime di Pechino non solo hanno smesso di crescere ai ritmi di un tempo, ma in qualche caso i consumi stanno diminuendo. Il rischio più drammatico per le minerarie – che avevano investito, indebitandosi fino al collo, come se il boom durasse per sempre – è che la Cina possa non tornare più quella di un tempo: il suo modello di crescita sta evolvendo verso un’economia sempre più orientata ai servizi e sempre meno “commodity intensive”. I big delle materie prime – quelli delle miniere, come Bhp Billiton, Rio Tinto o AngloAmerican, ma anche quelli del trading, come Glencore o Noble, e le major petrolifere – hanno faticato a venire a patti con la realtà e oggi pagano le loro illusioni con performance di borsa disastrose, che li hanno portati in molti casi a minimi pluriennali. Quasi tutti i protagonisti del settore del resto hanno reagito in ritardo alla nuova realtà e forse, nonostante la cancellazione di investimenti per centinaia di miliardi di dollari, non l’hanno ancora fatto in modo incisivo.