La Stampa, 13 novembre 2015
I segreti del Belgio sportivo, che ha investito tutto su se stesso
«Si è sempre detto che il Belgio è tenuto insieme dal re e dalla nazionale di calcio, ma ora la nazionale sta diventando più importante». Christophe Berti, firma storica del quotidiano «Le Soir», ammette che nel «paese piatto» la febbre del pallone è alta, convinzione che certifica ricordando che la partita con Cipro, determinante per tornare all’Europeo dopo 16 anni (quando lo ospitò con l’Olanda), ha registrato il «tutto esaurito» un mese prima. Ma non solo. I «Diavoli rossi» sono in testa alla classifica mondiale della Fifa, mentre la squadra di tennis si appresta a giocare la prima finale in Coppa Davis dal 1904. Non male per un Paese di 11 milioni di abitanti che tiene a fatica insieme la sua doppia anima, vallona e fiamminga.
Grazie Bosman
Il fenomeno Belgio, paradossalmente, è merito della sentenza Bosman. Che deve il nome da Jean-Marc Bosman, il centrocampista belga che sfidò la federazione per giocare in Francia e creò la premessa per una decisione con cui la Corte Ue rivoluzionò il calcio liberalizzando i trasferimenti. Per il piccolo Belgio, poco più grande del Piemonte, coi suoi piccoli stadi, il pubblico limitato, i mezzi scarsi e i diritti Tv da saldo, era una notizia ferale. Club come l’Anderlecht, che negli anni Ottanta aveva saputo strapazzare 3-1 la Juve di Platini e la Fiorentina di Socrates 6-2, imboccarono un lento declino. «Col calcio di oggi e tutti i soldi che girano – ammette Berti -, sono risultati che adesso avrebbero tutti i contorni del miracolo». In effetti i grandi club, come lo Standard Liegi, il Gent e il Bruges, navigano a metà della classifica europea. I nazionali che producono, invece, sono sul tetto del mondo grazie a un approccio intelligente e pragmatico. Grazie al «modello belga». Dopo la Bosman, le squadre hanno preso a farsi i giocatori in casa e generato un business milionario. Con denari prevalentemente privati hanno alimentato il sistema dalla base, mettendo allenatori di peso ad allevare i giovani e tenendo quanto più possibili genitori lontani dai campetti. Hanno sfruttato l’integrazione che funziona, con formazioni multicolori che generano leggende multietniche.
Da Kompany a Tielemans
In Belgio ci sono 1800 club, che gestiscono 70 mila squadre di diverse categorie, e i tesserati sono 425 mila, quasi il 4% della popolazione. Un piccolo regno, ma molto attivo nel formare campioni. Il congolese di Uccle, Vincent Kompany, andò all’Amburgo per 8 milioni quando aveva solo vent’anni. Lukaku passò appena maggiorenne al Chelsea per 22 milioni. Le società producono talenti, li mettono in prima squadra e li vendono con profitto, ma i soldi sono reinvestiti nel vivaio e si riparte. Nel frattempo i giocatori si completano all’estero e, quando giocano in nazionale, esprimono calcio globale. L’ultimo gioiello arriva dall’Anderlecht: si chiama Youri Tielemans, è del 1997 e andrà lontano. Anche nella valutazione.
Che festa per la nazionale
Il tennis, invece, è un’altra cosa. Dove c’è un pizzico di fortuna, visto che i belgi hanno eliminato la Svizzera quando mancava Federer. La stella locale è David Goffin, 24 anni e 14° al mondo, che spesso, da solo, non vale i rivali. Anche qui, però, cambia tutto la spinta dal basso: un sistema oculato nella spesa a cui piace investire su se stesso. È il «modello belga», la fabbrica di campioni che piace al pubblico. A Bruxelles non capiterebbe di vedere la nazionale correre in uno stadio mezzo vuoto, come successo agli azzurri di Conte a Firenze. Il calcio ha radici profonde fra la gente. Andare alla partita è una festa per grandi e piccini. La forza dei «Diables rouges» passa anche di qui.