la Repubblica, 13 novembre 2015
Vita del mullah Krekar
L’uomo dalla barba rituale, inginocchiato nel ghiaccio dell’esilio norvegese e da ieri di nuovo in carcere, l’emiro che dà a questa operazione a trazione investigativa italiana e respiro europeo un senso e uno spessore, è un antico cliente delle intelligence e polizie europee e statunitensi. E nulla, in fondo si potrebbe dire oggi, della sua modernissima e digitale rete “Rawti Shax”, se non si cominciasse da lui. All’anagrafe, Ahmad Faraj Najmuddin, nato il 7 luglio 1956 a Sulaymaniyha, Kurdistan iracheno. Una moglie, quattro figli, uno status di rifugitao politico revocato 13 anni fa e mai più riconosciuto. Negli archivi dell’antiterrorismo mondiale, Mullah Krekar, esule curdo nell’anno della prima Guerra del Golfo (1991), signore e padrone di Ansar Al Islam, la fazione islamica curdo sunnita che, nel 2003, in coincidenza con l’invasione alleata dell’Iraq e lo sfaldamento del regime di Saddam, guarda ad Al Qaeda e Osama Bin Laden come la strada maestra verso il Califfato ed è pronta per questo a rovesciare tutta la sua violenza contro partiti e istituzioni curde, in una infinita scia di attacchi suicidi. Di più. È il chierico che, in quello stesso anno, trasforma l’angolo remoto di Europa in cui ha deciso di rifugiarsi – la Norvegia, appunto – in una prigione volontaria che gli risparmi la pena di morte che pende sulla sua testa in Kurdistan e da cui può muovere, come un grande burattinaio, uomini e denaro destinati alla Jihad (ieri l’Iraq, oggi la Siria) e, insieme, terrorizzare la quieta retrovia dell’Europa, la culla della sua tolleranza.
È uno sgraditissimo ospite, il Mullah. Da quando, arrestato all’aeroporto di Amsterdam nel settembre del 2002, di rientro dall’Iraq, l’Fbi vede bene di rispedirlo in Norvegia, che vorrebbe a sua volta liberarsene rapidamente. Ma la costituzione impedisce l’espulsione verso Paesi dove la morte è certa. Proibisce, soprattutto, anche quell’altra forma “nera” di estradizione che, in quel momento, l’amministrazione repubblicana americana ha battezzato “extraordinary renditions”. Sequestri di persona. Né più e né meno. Di cui, Krekar, al pari di Abu Omar (fatto scomparire a Milano) è obiettivo designato. Ma a cui sfugge, perché in Norvegia la Cia, al contrario dell’Italia, non trova chi faccia pasticci.
Il giorno dell’Immacolata del 2006, le Nazioni Unite lo iscrivono nella “terror list”, consegnandogli la patente globale di pericolosità. A ruota, il Dipartimento del Tesoro americano lo battezza come uno dei principali finanziatori del terrorismo islamico. Finché, alla fine del 2007, i giudici della Corte Suprema norvegese non lo dichiarano «minaccia alla sicurezza nazionale». Lui non si muove. E, soprattutto, incendia la vita politica del paese che lo ospita. Emette una fatwa («Giuro che non vivremo se lei vivrà») sulla scrittrice Mariwan Halabjaee, autrice di “Sesso, Sharia e donne nella storia dell’Islam”, curda come lui e residente in Norvegia. E per questo accende l’odio di chi lo vorrebbe fuori dal Paese. Vivo o morto (nel gennaio del 2010, ignoti esplodono colpi di arma da fuoco contro la sua abitazione).
Come tutta risposta, nel gennaio del 2012, minaccia il primo ministro norvegese Erna Solberg («Se mi cacciasse e per questo motivo io morissi – avvisa – lei farà la mia stessa fine»). E per questo finisce in galera. Condannato a 5 anni, che in appello vengono ridotti e che, nel gennaio di quest’anno, gli consentiranno di lasciare il carcere per l’obbligo di dimora. Epperò, sono proprio gli anni del carcere – scopriamo ora dalle carte dell’inchiesta della Procura di Roma e del Ros dei carabinieri – che lo perdono. I norvegesi lo accomodano in un penitenziario (il Kongs Vinger di Oslo) civile come il paese dove è stato costruito. Le finestre non hanno sbarre. La cella, singola, è un mini appartamento di tre stanze, con uno spazio per il fitness e la cyclette, le visite della moglie sono assicurate anche negli spazi di affettività e sessualità. Può lavorare al computer (naturalmente non connesso in rete). C’è un solo dettaglio che il Mullah ottimisticamente non immagina. I norvegesi non sono degli sprovveduti: tra il 2012 e il gennaio 2015 una cimice registra anche i sussurri di Krekar. Soprattutto ogni sillaba dei suoi colloqui con familiari e adepti cui consegna, con pizzini e file mp3, i sermoni, le coordinate e le parole d’ordine della nuova organizzazione: l’orizzonte politico «l’instaurazione del Califfato nel Kurdistan iracheno» e l’appoggio convinto «alla bandiera nera dell’Is» – e la struttura «compartimentata in cellule, ali, corpi, famiglie, clan e tribù» e divisa tra un livello palese (quello dell’università islamica telematica) e uno clandestino (i “comitati segreti”).
In carcere, il mullah dispone (o almeno così crede) dei suoi uomini, dei canali di finanziamento e reclutamento. E le cimici lo registrano mente si prende gioco di quella che gli appare la dabbenaggine norvegese. Ride parlando dei media occidentali che, parlando di Islam, «gracchiano come rane». Ma la rana della bocca larga che parla, parla, parla, alla fine è proprio lui. E questa volta, forse, per scrivere davvero la sua fine.