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 2015  novembre 13 Venerdì calendario

I ciclisti che pagano per correre e le figure deprimenti delle squadre italiane

Quattro ciclisti professionisti italiani su dieci costretti a pagarsi lo stipendio da soli, foraggiati da parenti o piccoli sponsor personali pur di continuare a lavorare. Squadre che scelgono parte dei loro atleti non per meriti sportivi ma per disponibilità economica. Meccanismi di pagamenti in nero diffusi. Così hanno raccontato al Corriere della Sera lo scorso 6 novembre una decina di atleti azzurri. Chi non paga smette, emigra o torna dilettante.
Come la vedono i procuratori, che degli atleti sono i confidenti più stretti? Alex Carera, agente di Nibali e Aru: «Quelli disposti a pagarsi lo stipendio sono tanti – spiega – e ci contattano spesso. Dico loro di trovarsi un altro lavoro: se paghi per correre sei al capolinea». L’agente P., che parla solo con garanzia di anonimato, gestisce quindici atleti. «La maggior parte dei miei paga. Dai 25 ai 50 mila euro l’anno. Una squadra con sede in Italia chiede più soldi perché ha contributi pensionistici alti. Chi sta in Ucraina o Croazia molto meno. Paga il genitore o lo zio tifoso che sogna un professionista in famiglia. Paga un’azienda “amica” che, se i soldi sono abbastanza, può anche mettere il marchio sulla maglia».
Il meccanismo è complesso. «Il manager – continua – chiede all’atleta 50 mila euro ma deve pagargliene 40 mila di stipendio, con bonifici mensili documentabili. Per aumentare il margine di ricavo, l’atleta gli restituisce in nero almeno 1.000 dei 2.000-2.200 euro mensili. Con quei soldi spesso viene gonfiato lo stipendio del capitano. Alcuni team manager, per evitare che gli atleti facciano i furbi, aprono loro un conto corrente cointestato con un prestanome. Il 27 del mese pagano, il 28 prelevano l’eccedenza. Alcuni fanno firmare contratti pluriennali ma consegnano all’atleta solo quello del primo anno, aggravandone precarietà e ricattabilità. Se il corridore va male o perde lo sponsor è fuori. Se va bene e ha un’offerta importante, paga in nero lo svincolo. Per passare a un team World Tour un atleta della nazionale ha tirato fuori due anni di salario».
Come reagiscono alle accuse i team manager del ciclismo italiano? Negano. Gianni Savio, il decano: «Le richieste arrivano, ma questa prassi nel mio team Androni non esiste. Al massimo si prende un buon atleta consigliato dallo sponsor, come ho fatto col velocista Pacioni». Roberto Reverberi, della Bardiani: «A queste condizioni non li prendiamo». Angelo Citracca, manager della Southeast: «Vi hanno raccontato cose inesistenti, gettando fango sul ciclismo italiano». La sua squadra, però, è stata protagonista di un clamoroso caso di raccomandazione, quello del panamense Ramon Carretero, primogenito di un facoltoso uomo d’affari. «Come facevo a rifiutare il figlio – urla Citracca – di chi mi ha trovato lo sponsor salvando 30 posti di lavoro?». Per Ramon il padre ha preteso non solo il contratto, ma anche un posto al Giro d’Italia 2015, pur sapendo che il figlio in tre stagioni e 50 giorni di gara non era mai riuscito ad andare oltre il quint’ultimo posto, staccandosi anche sui cavalcavia. Al Giro si è ritirato, distrutto, dopo sole sette tappe. Per resistere aveva ceduto al doping: positivo all’Epo.
È un caso estremo, certo, ma che il ciclismo italiano non privilegi la qualità è evidente dai risultati. Il 2015 è stato l’anno peggiore di sempre. Con 500 giorni di gara e 65 corridori in organico, le quattro squadre italiane hanno rimediato una sola vittoria in una corsa di prima fascia (Nicola Boem al Giro d’Italia) e una trentina in gare che definire di seconda fascia è ottimistico, tra Romania, Bulgaria, Cina, Slovenia e Malesia. E la settimana scorsa la Federazione ciclistica internazionale ha sospeso temporaneamente il rinnovo della licenza a due squadre (Southeast e Bardiani) per verificarne la situazione interna.