Linus, 12 novembre 2015
Il capitalismo all’assalto del sonno, un saggio che fa chiudere gli occhi
Ho sonno, gli occhi mi si chiudono e le palpebre mi si appiccicano l’una all’altra come quelle dei gatti appena nati, ma devo andare avanti, il libro non è ancora finito e non sarebbe serio scriverne senza avere letto l’ultima parola. Il libro in questione è 24/7 di Jonathan Crary, un professore radical – ma molto radical – della Columbia University, che in Italia è appena stato pubblicato da Einaudi. Non mi sto addormentando perché sia noioso, anzi: procede con la furia incalzante che hanno soltanto i veri credenti o quelli che si sono convinti di avere scoperto la causa del male nel mondo. “Il capitalismo all’assalto del sonno”, dice il sottotitolo: ed è vero, altrimenti adesso dormirei, invece di sforzarmi di leggere, con gli occhi a fessura, sfilze di nomi: Nizan e Valéry, Stiegler e Agamben, Tarkovskij, Lévinas, Deleuze e Guattari. 24/7 (che poi significa 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana) è pieno zeppo di citazioni, intuizioni e storie formidabili: c’è “il passero dalla corona bianca” (Zonotrichia leucophrys) che rimane “in stato di veglia per una settimana durante la migrazione” ed è studiato dal Dipartimento della Difesa e da varie università americane per stabilire “in che modo sia possibile un’astensione completa dal sonno e al contempo un funzionamento produttivo ed efficiente” (così da produrre un “soldato libero dal bisogno di dormire” e, subito dopo, lavoratori e consumatori perennemente svegli). Oppure i satelliti a specchio progettati da Russia e Unione Europea alla fine degli anni Novanta per illuminare vaste zone della Terra anche di notte, risparmiando elettricità. Però io ho sonno e, infatti, se mi volto verso l’abat-jour, lo scambio per uno di questi satelliti.
L’ideologia del 24/7, racconta Crary, pervade il presente. Di più: trasforma tutto in presente. Annuncia “una durata senza interruzioni, contraddistinta da un principio di operatività incessante”, che spezza ogni legame con la circolarità del tempo e sopprime ogni pausa. “Un mondo illuminato 24/7 senza ombre è il miraggio capitalistico finale”, sentenzia l’autore, convinto che sia in atto la “bioderegulation”, la separazione crescente tra le esigenze vitali dell’uomo e il movimento febbrile e perenne del denaro e delle merci. “L’intero pianeta viene riprogettato come luogo di lavoro perennemente in attività o come centro commerciale che non chiude mai”.
Il mio cervello annebbiato sussulta, oscillando tra la razionalità della veglia e quella del sogno, e intreccia alle parole che legge sul foglio ricordi di frasi, spezzoni di libri amati in passato, canzoni. La storia di Caterino, Il robot che voleva dormire, di Gianni Rodari. Liza Minelli, Robert De Niro e Frank Sinatra che cantano New York New York: “I want to wake up in a city. That doesn’t sleep. And find I’m king of the hill”, “Voglio svegliarmi nella città che non dorme mai e scoprire di essere il capo”. Infatti, “il capo non dorme mai”. Nella mia testa c’è un criceto che corre nella ruota e penso che il lavoro oggi è così – o corri nella ruota o non corri proprio – e mentre la luce dell’abatjour continua a filtrare fin dietro le palpebre, mi ritorna alla mente che Walter Benjamin nei Passages definisce l’invenzione della luce elettrica “l’inaugurazione della vita notturna”, e cita quel cronista così terrorizzato da profetizzare: “Gli uomini saranno accecati dall’eccesso di luce elettrica e impazziranno per il ritmo delle comunicazioni”. Sono passati 150 anni, ma Crary è ancora d’accordo: la luce elettrica, per lui, è complementare al Panoptikon, il modello politico della modernità, l’utopia architettonica del controllo totale e dispiegato intorno a cui Michel Foucault ha costruito quel capolavoro che è Sorvegliare e punire. Con la soppressione dell’ombra, tutto viene esposto, ma tutti si espongono di buon grado, però, sui social network nell’illusione che la visibilità coincida con l’esistenza. Sognando, continuo a pensare: davanti alla TV ci si addormentava – per vent’anni milioni di italiane sono andate a letto con Maurizio Costanzo – al contrario di internet che può tenere svegli all’infinito.
Ma mentre scivolo nel sonno, immemore dell’avidità del capitalismo e dello sdegno di Crary, sotto le mie finestre passa il camion della nettezza urbana e svuota le campane per la raccolta differenziata del vetro. Il fragore è lancinante – uno dei crimini contro l’umanità avere deciso di farlo di notte – e spalanco gli occhi in preda al terrore: se la privazione del sonno è una tortura nata con la modernità, forse la contemporaneità stessa è una tortura. Riprendo in mano il libro: “Nel corso del XX secolo, l’offensiva è stata costante, dal momento che, a fronte delle (oggi inconcepibili) dieci ore di sonno dei primi del Novecento e delle otto di qualche decennio fa, oggi un americano in età adulta dorme in media circa sei ore e mezzo a notte”. Sempre che il camion della nettezza urbana non arrivi prima. Sbadiglio a squarciagola. L’erosione del sonno è in atto da secoli: io dormo meno di mio padre che dormiva meno di mio nonno, che dormì meno del bisnonno Ottavo e del trisavolo Astolfo. Però io non mi sono mai svegliato alle cinque di mattina per andare in fabbrica o nei campi (e peraltro da sempre, d’estate, i contadini mietono di notte, perché fa meno caldo). E non so bene che cosa sceglierei tra un centro commerciale aperto anche la notte di Natale e un negozio chiuso e semivuoto. “Oggi non vi è neppure un singolo istante in cui la vita degli individui non sia modellata, contaminata o controllata da un qualche dispositivo”, ha scritto Giorgio Agamben, citato da Jonathan Crary. La parola chiave qui è “contaminata”. La tecnologia e l’economia – cioè il capitalismo – contaminerebbero la vita autentica degli antenati. Ma anche Leopardi non riusciva a dormire perché un ubriaco cantava per strada (“il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello”) e chi è stato svegliato all’alba dal chicchiricchì dei galli o dalle campane dei preti sa in cuor suo di averli maledetti. Il buio delle notti contadine non era un guscio protettivo, era anche puzza, violenza e stupro. Rimpiangere troppo il sonno finisce per assomigliare a un desiderio di morte. Ripenso alla vita regolare, e piena di riposo, dei miei antenati. Chissà se era davvero così. Adesso, però, dormono tutti sulla collina, come nell’Antologia di Spoon River.