Origami, 12 novembre 2015
Perché non spostiamo la capitale d’Italia a Tolentino?
Al quarto tentativo di spending review abortito in quattro anni, forse è tempo di soluzioni radicali. Trasferiamo la capitale a Tolentino, cittadina di specchiata modestia. Ai grand commis lasciamo libertà di scelta: cambiare residenza, o cambiare lavoro. Evitiamoci nuove tratte dell’alta velocità: rappresentare il popolo è un “servizio”, parola che evoca nobili scomodità. I padri fondatori americani, dovendo dare una capitale alla loro repubblica, la costruirono fra i fiumi Potomac e Anacostia, in un luogo meteorologicamente dannato. Inverni ghiacciati, estati torride suggerivano a parlamentari e funzionari di limitare quanto più possibile i tempi di permanenza nel distretto di Columbia. È vero, all’epoca la politica non era una professione, ma il clima faceva la sua parte, e le sessioni parlamentari duravano a dir tanto sei mesi. Il governo che governa meglio è il governo che lavora meno. Da un ufficio in cui si respira a fatica si cerca in ogni modo di fuggire. Poi è arrivata l’aria condizionata ed è cambiato tutto: l’attività di Congresso e Senato si è fatta più intensa, Washington è diventata più piacevole e si è riempita di lobbisti e consiglieri del Principe, felici di tenerci salotto.
Figuratevi Roma che è tutta una mezza stagione, d’inverno il clima non è mai troppo rigido, d’estate c’è il ponentino a rinfrescare le serate.
Essere la capitale di un Paese declinante, perso sul mappamondo, aggiunge nulla al fascino che Roma esercita anche su chi ne conosce giusto il nome. E del resto a pensare che han pestato quella terra Bruto e Augusto, Cicerone e Lucrezio, impallidirebbe la foto di Yalta, altro che i selfie dei nostri onorevoli scravattati.
Ma per costoro, invece, chiamarla “casa”, Roma, è una necessità vitale. Ora che il mestiere del parlamentare gode di una reputazione due tacche sotto quella del mezzano, il conforto di esercitarlo, quel mestiere, in uno dei punti nevralgici della storia umana lenisce i graffi dell’antipolitica. La grandiosità dei suoi palazzi inebria, gonfia le vele all’ambizione. Che volete che sembrino, duemiladuecento e rotti miliardi di debito pubblico, in una città che è “eterna”? Se di spesa pubblica s’occupassero gli psicologi e non gli economisti, scoprirebbero che ne dobbiamo miliardi al Colosseo. Non nel senso di guide turistiche e restauri. Semmai perché tutta quella grandezza porta il legislatore a esser grande a modo suo. Che vuol dire, firmando giganteschi assegni, coi soldi dei contribuenti.
L’aula di Palazzo Carignano mal si prestava a promesse roboanti. E persino Mussolini, con tutta probabilità avrebbe faticato a lucidare il mito dell’Impero sporgendosi da un finestrone di Palazzo Vecchio.
In politica i simboli sono importanti. A dire il vero, la politica è poco altro. Per avere uno Stato più sobrio cominciamo da una capitale sobria.