Il Messaggero, 12 novembre 2015
Viaggio nella città bengalese di Darjeeling, patria delle più importanti piantagioni di tè del pianeta. All’ombra del Kangchenjunga, la montagna sacra e assassina
Sullo sfondo c’è una straordinaria montagna. Il Kangchenjunga, la terza cima della Terra, si affaccia dai suoi 8596 metri sulle foreste e sulle valli del Bengala, del Nepal orientale e del Sikkim. Il suo nome significa “Cinque Tesori della Grande Neve”. Salendo a piedi da Darjeeling a Sandakphu o a un altro belvedere, si scopre alle sue spalle la vetta candida dell’Everest.
Il Kangch, per chi vive ai suoi piedi, è una montagna sacra. Nel 1955 gli inglesi Joe Brown e George Band, al termine della prima ascensione, si sono fermati qualche metro più in basso per lasciare la neve della cima agli dei. Da allora, hanno fatto lo stesso altri quattrocento uomini e donne. Più di ottanta alpinisti non sono tornati a casa. Il Kangchenjunga sa essere un gigante assassino.
Per Darjeeling, la città più alta del Bengala, la terza montagna della Terra è uno sfondo prezioso. Come il Cervino per Zermatt, come le Tofane per Cortina, come il Monte Bianco per Courmayeur e Chamonix, il Kangch è un mito del turismo, e uno sfondo per ritratti e per selfie. Accanto a scrittori famosi, primo tra tutti Mark Twain, e a esploratori dell’Asia come Fosco Maraini, Vittorio Sella e Giuseppe Tucci, sono passati da qui milioni di visitatori di tutto il mondo.
UN SECOLO FA
Un secolo fa si arrivava a Siliguri in vagone-letto e si proseguiva sullo sbuffante Toy Train, un minuscolo treno a vapore. Oggi si vola da Delhi o Kolkata a Bagdogra, e si prosegue in fuoristrada o in bus. All’arrivo, a duemila metri di quota, accolgono edifici coloniali e templi (in quello di Mahakal pregano insieme indù e buddhisti), ristoranti e bazaar, bambù giganti e scimmie ficcanaso.
Anche chi non sa nulla di montagna completa il suo tour accanto alla statua di Tenzing Norgay, lo sherpa nato in Nepal, ma residente a Darjeeling, che nel 1953 ha salito per la prima volta l’Everest. E che tre anni dopo, con l’appoggio del primo ministro Jawarhlal Nehru, ha fondato e diretto l’Himalayan Mountaineering Institute, la prima scuola di alpinismo dell’India.
Ma Darjeeling non è solo panorami. I pendii che scendono dalla città fino ai pochi metri sul mare di Siliguri ospitano le più importanti piantagioni di tè del pianeta. Tutto l’anno, migliaia di lavoratori arrivati dall’India, dal Bangladesh e dal Nepal raccolgono le preziose foglie dalle piante.
Per possedere le piantagioni, e per controllare la carovaniera verso il Tibet, i britannici hanno affittato nel 1835 la zona dal rajah del Sikkim. Per occuparla militarmente, qualche anno dopo, per vendicare dei viaggiatori inglesi che erano stati imprigionati con l’accusa di spionaggio dal sovrano.
Ogni giorno, con il sole e la nebbia dell’inverno o con le piogge monsoniche dell’estate, camion e vagoni carichi di tè viaggiano per seicento chilometri dalle alture di Darjeeling a Kolkata, la Calcutta degli inglesi. Ogni partita va all’asta in grandi sale dove i grossisti scrutano i loro computer e fanno offerte on-line. Dalle pareti, scrutano le contrattazioni moderne i ritratti dei coltivatori di un tempo, con baffi, pipe e giacche di tweed.
Ma il passato e il presente, a Kolkata, non si incontrano solo alle aste del tè. Per spostarsi, oltre alla metropolitana e ai minibus, si possono usare i vecchi taxi Ambassador, costruiti negli anni Sessanta. I borghesi, nelle vie più trafficate, si affidano agli “uomini-cavallo”, i conduttori dei risciò che restano in fondo alla scala sociale.
Accanto alle facoltà di una delle più grandi università della Terra, le bancarelle di Church Street formano una sterminata libreria a cielo aperto. Ai bazaar con atmosfere antiche si affiancano centri commerciali in acciaio e cristallo. Bar, teatri, ristoranti e cinema confermano che Kolkata è la capitale culturale dell’India.
Fedeli di molte fedi diverse pregano sulla tomba di Madre Teresa. Solo pochi curiosi, nel romantico cimitero di Park Street, visitano le tombe di uomini, donne e bambini della Calcutta coloniale, uccisi dal Settecento in poi da febbri e altre malattie tropicali.
I SELFIE
Dalla casa di Rabindranath Tagore, poeta, drammaturgo e tra i padri dell’India indipendente, dieci minuti in taxi portano al Victoria Memorial, il gigantesco edificio dedicato alla Regina Vittoria. Il rumore del traffico arriva ovattato, oltre gli alberi scorrono le acque pigre dell’oogly. Centinaia di ragazzi, ogni giorno, scattano i loro selfie davanti alla statua corrucciata della regina. Il Raj, l’India inglese, se n’è andato da sessant’anni. Ma la memoria dei giovani è anche qui.