Corriere della Sera, 12 novembre 2015
Il Tutankhamon di Hollywood e quello di Carmelo Bene
La saga del faraone Tutankhamon ha il sapore di quei film che da piccoli si vedevano la domenica pomeriggio nei cinemini oratoriali (emendati, ovviamente, delle scene d’amore). Per apprezzare «Tut. Il destino di un faraone» bisogna farsi bambini come il protagonista, lasciarsi trasportare dal racconto, credere a quello che si vede senza tanti perché (Deejay tv, venerdì 13 c’è il gran finale).
«Tut», il faraone bambino, è un grande melò storico, che dispiega in tutta la sua maestosità gli intrighi di corte, gli amori e i tradimenti, le grandi battaglie, l’Egitto di Hollywood, il sacrificio estremo. Incoronato faraone a soli 9 anni, dopo che il padre Akhenaton è ucciso da un traditore, Tutankhamon eredita la più grande potenza al mondo (cos’era l’Egitto di allora e a confronto con quello di oggi!), ma anche un regno dilaniato da feroci contrasti interni. Intorno a lui si intreccia una rete di relazioni in cui ciascuno sembra mirare ai propri interessi.
Oltre al Gran Visir Ay, primo ministro dell’impero egiziano (Ben Kingsley), ci sono la sorella Ankhesenamon (Sibylla Deen), costretta a diventare sua moglie per mantenere il sangue reale, incapace però di dare un erede al marito e per questo a rischio di essere ripudiata, il sacerdote Amun (Alexander Siddig), leader di un culto politeistico che disprezza Tut, fino al generale Horemheb (Nonso Anozie), le cui mire espansionistiche lo portano alla continua ricerca di terre e popoli da conquistare. Guidato dall’amore per Suhad (Kylie Bunbury), Tut (Avan Jogia) muore a soli 19 anni per una ferita in battaglia curata male, paga l’ultimo prezzo in cambio della prosperità del suo popolo e del suo regno.
Ripeto: la serie va accettata per quello che è. Invece, per chi crede solo alle favole colte, segnalo che in rete c’è la straordinaria «intervista impossibile» che nel 1974 Giorgio Manganelli fece a Tutankhamon, interpretato per l’occasione da Carmelo Bene. I due Tut si compensano.