Libero, 11 novembre 2015
Sulle sorprendenti dichiarazioni di Ingroia in tema di magistratura e di mafia, derubricate con troppa disinvoltura. «Piace credere che abbia capito delle cose e abbia sinceramente cambiato idea. Non essere disposti a crederlo possibile - mai - significa essere morti, altro che società civile»
La bella intervista di Giacomo Amadori ad Antonio Ingroia (Libero di lunedì) è stata ripresa in tutte le salse: tranne – mi sembra – una. Non ha fatto troppo notizia, cioè, che Ingroia abbia fatto delle lamentazioni che non stonerebbero in bocca a un qualsiasi garantista degli ultimi vent’anni: nell’intervista parla di «un meccanismo di autodifesa corporativa che scatta spesso quando ci sono di mezzo magistrati», parla di «errori giudiziari» e di «inefficienze del sistema più gravi di quanto sospettassi», di «una magistratura che spesso è un muro di gomma rispetto alle istanze della difesa», fa un esempio di «società fallite, uomini ammalati e imprenditori rovinati», non si risparmia neppure in tema di mafia e dice che Leonardo Sciascia «ebbe un’intuizione profetica». Eccetera. Ecco: fare spallucce, fare i cinici, e limitarsi a definire il cambio di prospettiva di Ingroia come fisiologico (faceva il magistrato, ora fa l’avvocato) credo corrisponda a uno dei peggiori difetti storici e antropologici di questo Paese. Piace credere che ci sia ancora qualcuno, in Italia, disposto a credere che Ingroia non sia soltanto il solito bizantino oscillante e indolente nelle sue parti in commedia, punzecchiato da convenienze opportunistiche e basculanti: piace credere che abbia capito delle cose e abbia sinceramente cambiato idea. Se per voi è poco, peggio per voi: ma non essere disposti a crederlo possibile – mai – significa essere morti, altro che società civile.