il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2015
«Gli "hot spot" sono centri di accoglienza, i "gate" varchi: perché usare termini stranieri quando esistono ottimi equivalenti in italiano?». L’Accademia della Crusca lancia una campagna linguistica contro l’odierno abuso di forestierismi. «Le tre cause principali del fenomeno sono pigrizia, esibizionismo e ignoranza»
“Comme te po’ capì chi te vò bene si tu le parle ‘mmiezzo americano?” è la domanda che poneva Renato Carosone nella famosa canzone; e forse oggi è anche la risposta a un altro interrogativo: a cosa è funzionale l’uso (rectius: abuso) delle parole straniere, così frequenti nel discorso politico? Ce lo spiega un gruppo di lavoro dell’Accademia della Crusca, che si chiama Incipit, è costituito da studiosi e specialisti della comunicazione (Michele Cortelazzo, Valeria Della Valle, Jean Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa) e vuole monitorare i neologismi e forestierismi “incipienti”, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana. Valutandone l’utilità prima che i buoi siano scappati. Il gruppo si è formato dopo la petizione “#Dilloinitaliano” e dopo il convegno fiorentino del febbraio scorso. Il gruppo Incipit – si legge in una nota dell’Accademia – “respinge ogni autoritarismo linguistico, ma, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica e civile, vuole suggerire alternative agli operatori della comunicazione e ai politici”.
Intanto cerchiamo di capire perché siamo tanto propensi ai forestierismi, che diventano sempre più invadenti: agenzia di rating, quantitative easing, project financing, spending review, spindoctor. “Manca, in Italia, il senso di identità collettiva che rende uno stato saldo nella coscienza dei cittadini, manca una buona conoscenza della propria storia tale da restituire il senso di appartenenza alla propria cultura nazionale”, spiega il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini. “La classe dirigente è affetta da un altro vizio, che favorisce il forestierismo: cambiare le parole non costa nulla, e a volte dà l’illusione di aver cambiato le cose. Il problema è che l’italiano non è una lingua davvero amata dai suoi utenti, al di là delle dichiarazioni superficiali, tanto è vero che gli italiani, sia i giovani sia i vecchi e adulti, sono gli ultimi nelle classifiche sulla capacità di comprendere un testo, come si ricava dai dati Ocse 2013”.
Le ultime parole famose sono per esempio Hot spot e voluntary disclosure. “Hot spot dovrebbe indicare i centri di accoglienza”, spiega Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia. “È un nome oscuro, composto anche da ‘hot’ che è presente in molte altre parole straniere, introdotte nell’uso comune in Italia, ma con significati completamente diversi. Quindi chiamare hot spot questi centri è depistante, perché di fatto occulta il reale significato, serio e drammatico per la vita delle persone che ci entreranno. Hot spot nella nuova accezione risulta offensivo, elusivo rispetto alla realtà, dunque politicamente scorretto”.
Così per la dichiarazione spontanea dei capitali portati all’estero, la voluntary disclosure. Le parole straniere arrivano, e questo non è di per sé un male. Non si tratta di respingerle alla frontiera, ma di recepirle con giudizio.
“Perché i varchi alle stazioni si devono chiamare gate?”, si chiede ancora Sabatini. “Varco esiste, non c’è bisogno di usare gate. Teniamo presente che ai problemi di comprensione, si aggiungono anche quelli di grafia”. Un altro termine molto in voga è governance. “Ma governanza esiste ed è attestato nell’italiano antico: è presente negli Statuti di Perugia del 1342, anche se con un significato diverso. Il termine medievale con la sua terminazione in -anza indica una provenienza francese o provenzale. Il termine inglese governance è chiaramente preso dal francese, dove nella forma gouvernance è attestato almeno dal XIII secolo. Dunque, alla base del termine inglese odierno c’è una radice neolatina, che aveva già avuto uno sviluppo in ambiente italiano”. Da sempre il linguaggio politico utilizza formule ambigue. Negli ultimi anni però il ricorso alle parole straniere è sempre più ricorrente e serve a travestire la realtà. Alcuni, come i francesi, hanno adottato la soluzione più drastica: tutto viene tradotto. E allora perfino il computer diventa l’ordinateur e il software le logiciel.
Ma deve certamente esserci una via di mezzo tra lo “sciovinismo” linguistico d’Oltralpe e la nostra accoglienza senza riserve. “Il problema è storico, sociologico e di costume”, continua Sabatini. “Il caso della Francia è estremo e ha radici lontane. Ma anche gli spagnoli hanno tradotto in abbondanza. L’Italia ha lasciato entrare i termini tecnici e di uso internazionale, come computer. Da cui abbiamo derivato, per esempio, computerizzare o computeristico. Non ne facciamo una questione di forma linguistica. Quando il termine è sufficientemente trasparente e quando non c’è un’eccessiva differenza tra la grafia e la pronuncia, allora lo si può tranquillamente recepire. Il problema si pone quando esistono alternative semplici e comprensibili nella nostra lingua. A mio avviso intervengono tre fattori favorenti: pigrizia, esibizionismo e ignoranza. La lingua deve funzionare il più democraticamente possibile”.
Che fare, dunque? Nel libro che raccoglie gli atti del convegno fiorentino, Luca Serianni, linguista – professore alla Sapienza e membro dell’Accademia della Crusca – spiega: “Uno dei compiti dei linguisti, è quello di favorire la riflessione sulla lingua e sul suo significato anche identitario. La salute della lingua dipende, lo sappiamo bene, non da interventi esterni ma dai singoli parlanti (ossia da ciascuno di noi). Compete però ad alcuni di essi, per la posizione che occupano – ministro, direttore di un giornale cartaceo o televisivo, intellettuale che sia spesso ospitato in trasmissioni di successo – la responsabilità di un uso consapevole della lingua, rispettoso sia della sua storia, sia del diritto di ciascuno a riconoscersi appieno nelle parole che ascolta o legge negli interventi di chi opera in un ambito pubblico”.
Mercoledì prossimo il presidente Mattarella, che diventerà membro onorario della Crusca, presenzierà a una tornata accademica. A lui verranno consegnate le 70 mila firme di #Dilloinitaliano: speriamo che ne faccia tesoro. E magari passi la dritta a Matteo Renzi, che ieri a Milano si è detto, per il dopo Expo, disposto a investire in un progetto che sia “the best”. Da Carosone a Tina Turner, mala tempora.