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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

Dalla «mancanza di culi da leccare» per un leccaculo come Altan agli intellettuali italiani che fingono di capirti solo se gli parli oscuro. Frasi scelte da Paolo Siepi

Fondazione Prada, domenica scorsa. Gente che fotografa pavimenti che se li vedesse uguali a Quarto Oggiaro non se li filerebbe di striscio. Gianni Macheda.
Grillo. Giovanò, torniamo coi piedi per terra. Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania.
Sono un leccaculo ma non si trova più un culo che valga la pena. Altan. Il venerdì.
Il tasso di attuazione dei decreti è salito al 65%, tutti i dossier procedono, le aziende pubbliche, a partire da Eni, Enel e Finmeccanica, dopo il cambio dei vertici viaggiano più spedite. Certo se il Jobs act lo avessero fatto quelli di prima, oggi staremmo meglio. Se si fosse fatta prima la legge elettorale, avremmo un sistema più stabile. Se avessero già fatto la riforma costituzionale non impiegheremmo mesi per approvare una legge. Chiunque può passare il tempo a piangere e rimpiangere. Ma noi siamo diversi da chi ci ha preceduto. Non vogliamo trovare alibi, ma trovare soluzioni. Matteo Renzi (Maria Teresa Meli). Corsera.
La più grande lezione che Churchill ci ha lasciato è semplice: «Vivere è scegliere». «Sopravvivere, in guerra, è scegliere la priorità e tenercisi». Jean-Jacques Servan-Schriber, Passions. Fixot. 1991.
Non c’è niente da fare. Riforme, reati, sanzioni vecchie (interdizione dai pubblici uffici) e nuove (decadenza, ineleggibilità), tutto è inutile. Nel nostro Paese le regole non servono. Perché sono tutti d’accordo nel non rispettarle. Immaginate una partita di calcio: un giocatore è in fuorigioco, l’arbitro fischia, lui effettua comunque il tiro e fa goal. Secondo la regola, l’arbitro lo annulla. Palla al centro e si ricomincia. Ma se giocatori e tifosi se ne infischiano della regola, aggrediscono l’arbitro, lo buttano fuori dal campo e pretendono di considerare valido il goal; e se questo in effetti succede, la regola sul fuori gioco è del tutto inutile. Se la Figc emanasse una norma più chiara e stringente ma, alla prossima partita, la reazione della squadra e dei tifosi fosse la stessa, anche questa sarebbe inutile. Bruno Tinti. Il Fatto.
Fino a un certo punto noi argentini ci eravamo messi a capire il passato e il presente degli altri paesi, però non eravamo stati considerati dal resto del mondo e all’improvviso arrivò la notizia che ci commosse a tutti, ossia che il tango si stava ballando a Parigi, e poi a Londra, a Roma, a Vienna, a Berlino fino a San Pietroburgo, da parte della nomenclatura di quegli anni. La cosa ci riempì di gioia. Questo tango, ovviamente, non era lo stesso delle casas malas di Buenos Aires, di Montevideo, di Rosario o de La Plata. È strano che a Parigi, città simbolo di un’intelligenza lucida e licenziosa, il tango diventasse decente, perdesse i passi primitivi e si trasformasse in una sorta di camminata voluttuosa. Jorge Luis Borges, la Repubblica.
Pompei era una città popolare, ricca di attrazioni e fermenti politici. Ma anche di grandi ville. Ercolano, invece, era un po’ come Beverly Hills, i Parioli. Una cittadina elegante, ricca e snob. Ma anche con poco spazio e case piccole. Così mi ha colpito come avessero iniziato a razionalizzare gli spazi con soppalchi, angoli cucina e stanze multiuso. Proprio come noi. Alberto Angela, I tre giorni di Pompei. Rizzoli-Rai Eri.
Non so perché ma debbo ancora conoscere un vegano, vegetariano o salutista ultracentenario. Jori Cherubini. Il Foglio.
Il tratto di Castellaneta che colpiva, che non poteva non colpire, era la sua straordinaria prolificità letteraria. Ogni anno pubblicava un nuovo libro, romanzo o saggio che fosse, a volte anche più di uno. In tutto ha lasciato qualcosa come una cinquantina di opere, se non di più. E gli avanzava anche tempo per racconti e commenti sul Corriere, per dirigere Storia illustrata. «Come fai?», gli chiedevo, e lui si limitava a sorridere. Volevo saperne di più del laboratorio dello scrittore, volevo sapere dove trovava le tante trame dei suoi romanzi, da dove traeva ispirazione, segreto, questo, che, ogni scrittore di solito malvolentieri confida con assoluta sincerità. Glielo richiesi un giorno, durante un’intervista, a casa sua. E Carlo sorrise ancora, poi, senza una parola, si avvicinò a un tavolo e aprì un cassetto. Traboccava di ritagli di giornale: fatti di cronaca nera, cronaca bianca, cronaca rosa. Ritagliava tutte le notizie che in qualche modo lo colpivano; alcune avrebbero continuato a restare chiuse nel cassetto, altre sarebbero diventate primo nucleo di un romanzo. E poi spiegò la sua teoria, secondo la quale lo scrittore è un po’ come il cercatore di funghi che va nel bosco con il suo cestino e oltre ai funghi vi mette tutto quel che gli piace, che gli interessa, fiori, foglie, bacche, pietre, legni. Il suo cesto era quel cassetto e le notizie riportate da quei ritagli di giornale il suo bottino. Isabella Bossi Fedrigotti. Corsera.
Siamo stati condizionati dall’idea che il paesaggio sia qualcosa di sublime. Abbiamo accolto gli effetti della civilizzazione. L’urbanizzazione della natura come fosse un fatto scontato. La verità è che nella terra non c’è solo la poesia ma anche i veleni; non c’è solo la bellezza ma anche la durezza e il sacrificio. Un giorno scavai una buca di quattro metri e profonda altrettanto. Dissi ai miei amici. Scendiamo dentro. Come se fosse un luogo normale. Era una situazione insolita. C’era anche Toni Negri. Il quale, a un certo punto esclamò: ma cos’è questa puzza di merda. È l’odore vero della terra che tu non conosci, gli replicai. Fu interessante notare le reazioni. Il disorientamento. Per sette anni ho portato avanti l’agricola immaginando che l’arte non dovesse nobilitare la realtà ma coglierne le asperità, le durezze. La terra non giustifica nulla. Molti se ne sono andati. Sono scappati dalla terra. Perché non c’è niente di peggio che stare lì in mezzo al sole o al freddo, alla pioggia o al gelo. È questa tragedia che l’arte deve raccontare. Gianfranco Baruchello, pittore. (Antonio Gnoli). la Repubblica.
Alto sul campanile veneziano di San Geremia, il sole spolverava d’oro e di smalto i vetri dei palazzi, versava argento fuso sulle onde mosse dalle barche, sfumava i contorni dei camini e dei tetti in un vapore leggero, quasi che la città intera, coi suoi ponti, i rii, i palazzi barocchi, potesse, da un momento all’altro, lievitare, svanire in una dissolvenza da fiaba. Nantas Salvalaggio, Calle del tempo. Mondadori, 1984.
I nostri intellettuali fingono di capirti solo se gli parli oscuro. Roberto Gervaso. il Messaggero.