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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

Risanare le università è possibile. Parola di Riccaboni, il rettore di Siena che prese l’ateneo che aveva chiuso il 2010 con un rosso di 18 milioni, portandolo nel 2013 a +6,91, diventati 7,79 lo scorso anno

È un senese adottivo, essendo nato a La Spezia nel 1959, ma Angelo Riccaboni, ordinario di Economia aziendale, come molti che non sono nati all’ombra della Torre del Mangia, il cui campanone prelude a ogni corsa del Palio, è attaccatissimo a questa città. Per questo ha fatto il rettore dell’Università di Siena, con una passione che non ci avrebbe messo neppure un contradaiolo. Soprattutto, ha risanato un’amministrazione che, nel 2008, pareva sull’orlo del crack, perché dalle pieghe del bilancio era comparso un buco di 200 milioni fra contributi non pagati e debiti vari, una vicenda che vede ancora a processo due dei suoi predecessori. Riccaboni prese l’università che aveva chiuso il 2010 con un rosso di 18 milioni, portandola nel 2013 a +6,91, diventati 7,79 lo scorso anno che, secondo la contabilità economica, introdotta di recente, si traducono in un utile di 10,17. Un risanamento però non al prezzo di sacrificare didattica e ricerca, tanto che l’ateneo è tornato, da tre anni, a svettare nelle classifiche ed è uno dei primi italiani nei ranking internazionali. Un piccolo grande miracolo.
Professore, quando lei scese in campo, la situazione pareva quasi compromessa, fra bilanci disastrati e inchieste aperte. Chi glielo fece fare?
«Ero preside a Economia, molti colleghi me lo chiedevano».
Ci pensò su?
«Ci pensai e ripensai. Poi mi lasciai convincerei».
Quando arrivò al rettorato sembrava una missione impossibile.
«Il primo anno, onestamente, non si vedeva via d’uscita. Oltre alla situazione finanziaria gravissima»
Beh, un’aziendalista come lei, ne avrà viste di situazioni dissestate
«Sì, ma come spesso accade in queste situazioni, si manifestavano continue emergenze operative e vertenze da gestire nonché richieste di informazioni da parte di istituzioni, enti di controllo e responsabili delle molteplici inchieste in corso».
Cosa le pesava di più?
«Non c’era solo l’aspetto finanziario, era grave anche la situazione organizzativa».
Vale a dire?
«A fronte di un migliaio di docenti e 1.100 fra tecnici e amministrativi, c’era un solo dirigente: il direttore amministrativo. Insomma un’organizzazione piatta. Ora, è vero che ci sono organizzazioni nella Pubblica amministrazione, dove i ruoli dirigenziali sono anche troppo pingui, ma quella situazione era davvero al limite».
Il segno di un certo dirigismo dell’accademia, forse.
«Col fatto che sembravano esserci risorse in abbondanza, si riteneva evidentemente di fare a meno dell’organizzazione».
E anche lei, però, ha dovuto fare a meno dei dirigenti.
«Ovviamente in quelle condizioni di bilancio non si poteva assumere né dotarci di consulenze. È stata dura».
Non arrivarono commissari, però.
«I regolamenti per il commissariamento non sono mai stati emanati. Per noi, se permette, è stato meglio così».
In che senso, professore?
«Vede, so come lavora un commissario. In genere mette in fila tutto il patrimonio e comincia a vendere per ripianare, senza occuparsi di sviluppo o di iniziative per il rilancio. Con i suoi tempi, giustamente, ferie incluse. Spesso un commissariamento è una punizione divina, più che la premessa di un vero risanamento. Un’università in crisi finanziaria richiede qualcos’altro, oltre alla vendita del patrimonio, che peraltro siamo riusciti a non attuare».
Cos’altro?
«Richiede che le esigenze del risanamento siano sempre accoppiate con quello dello sviluppo, della qualità della ricerca, dell’internazionalizzazione, del rispetto delle esigenze degli studenti. Di un’università occorre tutelare in primis la sua reputazione. Se la perde, perde tutto».
Però rettore, Siena l’aveva di fatto perduta, la reputazione. La grandeur aveva preso la mano, i suoi predecessori avevano creato persino un’etichetta musicale: avrebbero prodotto i dischi delle band studentesche.
«Si era andati oltre il mandato accademico tradizionale, e contando su risorse future, fatti investimenti esagerati».
La famosa Certosa di Pontignano, dove nacque l’Ulivo, che pesava sui bilanci con perdite ingenti. Un suo predecessore la voleva vendere.
«La Certosa è un elemento dell’identità del nostro ateneo. Non l’abbiamo venduta, ma ne abbiamo esternalizzato la gestione, a professionisti che sanno valorizzarla, garantendo per i nostri congressi le stesse tariffe che avevamo prima. Era assurdo che l’università gestisse una struttura ricettiva».
Rettore, l’università è stata la prima istituzione cittadina a entrare in crisi a Siena, poi c’è stato un filotto terribile, dal Monte dei Paschi, al Comune passando per l’Asl. L’ultimo tracollo è stato simbolico: la mancata designazione a capitale europea della cultura per il 2019, malgrado un bellissimo progetto. Come è stato?
«Siena sembrava la quintessenza della solidità e della qualità della vita. Poi, a un certo punto, uno dei pilastri è entrato in crisi, parlo del Monte de’ Paschi, e ha messo in discussione anche un modello di sviluppo che, le ricordo, garantiva erogazioni per 200 milioni all’anno a tutto il territorio. Una cifra enorme. Va anche detto che quella crisi è stata anche strumentalizzata politicamente: a Siena abbiamo avuto due elezioni comunali in tre anni».
In tutto questo, l’università?
«L’Università di Siena è stata fondata nel 1240 grazie a una forte relazione con la comunità cittadina. Vi è una lunga storia di vicinanza fra città e ateneo. In questi ultimi decenni, però, altri motori di sviluppo si erano imposti».
E oggi?
«Oggi la nostra rinascita ha fatto capire come, invece, Siena possa avere futuro come città universitaria internazionale, come dimostrano i 900 studenti stranieri e gli oltre 500 in mobilità Erasmus».
E poi i vostri laboratori di Scienza della vita dialogano con quelli dell’industria farmaceutica dell’area senese, che danno vita al progetto Pharma Valley. In un ex-convento poi avete creato il Santa Chiara Lab, all’avanguardia nel digitale.
«È cambiato l’approccio a livello cittadino, regionale. Si guarda all’università come realtà in grado di dare un contributo decisivo allo sviluppo economico, sociale e culturale della città, al di là di un indotto ben superiore ai 250 milioni di euro del suo bilancio».
È stato duro portare i docenti da 1.100 che c’erano al momento della crisi ai 750 attuali?
«I vincoli della riforma sono serviti, negando la possibilità di bandire concorsi e riducendo al minimo i contratti a termine ma d’altra parte…»
D’altra parte?
«D’altra parte i docenti, nell’università italiana, sono passati da 62mila a 50mila, con una forte riduzione, dunque, anche a livello nazionale. La nostra forza è stata però l’attenzione fornita alla programmazione, sia a quella strategica sia a quella finanziaria, basata su una forte partecipazione e all’introduzione di coerenti meccanismi incentivanti. È stato un modo anche per dare messaggi chiari alla nostra comunità. E infatti la coesione e la motivazione del personale docente e tecnico amminsitrativo sono state le chiavi fondamentali per il risanamento e lo sviluppo di questi anni».
Messaggi del tipo?
«Che tutte le aree sono importanti, e che, pur rimanendo un ateneo generalista, vi sono oggi importanti opportunità nell’internazionalizzazione, nel settore delle Scienze della vita, nell’integrazione fra imprenditorialità e soluzioni digitali, nell’innovazione sostenibile e nella valorizzazione del patrimonio culturale».
Questo vuole dire, però, che non potrete più avere, chessò, un Franco Fortini, che era qui negli anni ’70 e ’80, o un Umberto Eco, che negli anni ’90 veniva a Scienze della comunicazione, piuttosto che Omar Calabrese che ha insegnato semiotica fino a quando non è scomparso?
«No, no, l’area umanistica resta molto importante: basta guardare l’attenzione rivolta in termini di dottorato di ricerca. E comunque per attirare le celebrità, l’Eco di turno per intendersi, oggi non basta più essere bravini a livello locale, bisogna essere ai vertici nazionali e a un buon livello internazionale. La strada è quindi giusta».
Avete circa 18mila studenti, fra lauree di primo e secondo livello, master e dottorati. Come sono andate quest’anno le immatricolazioni?
«Erano sostanzialmente stabili da qualche anno, ma proprio alla fine di ottobre, segniamo un +5% dei nuovi iscritti. E mi pare un segnale interessante, perché gli studenti oggi sono assai selettivi».
Senta, la vulgata fra molti suoi colleghi rettori, è che la formazione universitaria subisca da troppi anni riduzioni di risorse. Ma voi a Siena non siete proprio un esempio in controtendenza? Con risorse sempre più ridotte siete, nella vostra categoria, la migliore università d’Italia. Non sarà che i finanziamenti, nell’università italiana, fossero spesi male, come sosteneva qualche economista?
«A Siena una riflessione e un’autocritica erano necessarie e anche trovare un equilibrio diverso, attraverso la coesione e la rimotivazione delle persone, giochi tutt’altro che facili. Lo abbiamo fatto. Per noi la crisi è stata un’opportunità, ma le posso anche dire che di stenti si può morire, e in questo rispondo alla sua domanda più generale. Per questo sono lieto che nel nostro futuro ravvicinato ci siano 100 nuove posizioni di professore, coerenti con il nostro piano triennale. Perché se non investiamo nei giovani, nelle risorse umane, è impossibile avere un futuro. Ma mi lasci dire un’altra cosa».
Prego.
«Secondo me l’università oggi merita la fiducia e il rispetto dell’opinione pubblica».
Diamo qualche buon motivo.
«I rettori non sono più a vita, il Fondo di finanziamento ordinario ha una componente premiale assai importante, siamo finanziati utilizzando i costi standard, la valutazione della ricerca è ora diventata routine a livello nazionale e locale. A me pare che spesso i giudizi sull’università siano fermi a vent’anni fa e in 20 anni sono cambiate molte cose».
Quindi anche lei dice: «Più finanziamenti»?
«Dico i nostri atenei vadano irrobustiti, stando molto attenti e facendo scelte responsabili, come abbiamo fatto a Siena in questi anni. Anche il paese sta facendo una cura dimagrante, abbiamo un avanzo primario importante, ossia incassiamo di più di quanto spendiamo, ma non è che potremo andare avanti all’infinto. E anche nell’università bisogna tornare a investire, altrimenti gestire sarà sempre meno possibile».
Il premier Matteo Renzi ha parlato ogni tanto di creare 4-5 grandi hub della ricerca in tutta Italia, aggregando atenei e puntando a finanziare quelli. Sarebbero le research universities, mentre le altre dovrebbero occuparsi di insegnare. Che ne pensa?
«Una differenziazione è possibile e, per certi versi, sta già accadendo. Si potrebbe far di più. Però non dimentichiamo che il nostro è un Paese di territori, la forza dell’Italia sta qui, l’abbiamo visto in questi anni, salvandoci grazie alle esportazioni. E se polarizziamo troppo rischiamo di lasciare questi territori senza spinta. Ieri ho partecipato a un incontro presso il nostro polo di Arezzo».
E quindi?
«Là si fanno cose importante assieme all’imprenditoria locale: mi domando se un hub della ricerca che stesse a Roma, saprebbe valorizzare quel lavoro».
Lei che risposta si dà?
«Che sarebbe difficile. Ci son centri di eccellenza in tante materie, che ai territori danno linfa, e vanno supportati per portare l’innovazione a livello locale. Magari la differenziazione, fra atenei di ricerca e di didattica, potremmo farla, ma prima mettendo le università attuali in condizioni di svolgere la propria funzione. E costruire, sulla base dei risultati, centri di eccellenza diffusi nei territori».