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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

Padoan si arrende a Bruxelles: niente aiuti di Stato per le quattro banche commissariate. A salvarle saranno sette grandi istituti, che vi investiranno fondi privati per due miliardi

Proprio ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan lo ha ammesso: l’Italia ha perso il treno dei salvataggi bancari sette anni fa. E adesso sono guai. Nel 2008, quando esplose la crisi finanziaria mondiale, regnava l’ottimismo berlusconiano, più pernicioso di quello renziano. Mentre gli altri Paesi europei, Germania in testa, iniettavano miliardi di euro pubblici per sostenere le loro banche, in Italia ci raccontavano che non ce n’era bisogno. I banchieri gongolavano e si godevano le lodi sperticate dei grandi giornali e di quelli specializzati, di cui erano azionisti o grandi inserzionisti pubblicitari.
La crisi si è rivelata diversi anni più lunga del previsto, la polvere accumulata sotto il tappeto ha cominciato a traboccare. E adesso il governo e la Banca d’Italia non sanno bene come uscirne: “L’intervento tedesco è avvenuto qualche anno fa – ha ammesso Padoan – quando la normativa Ue sugli aiuti di Stato era meno esigente e c’erano più spazi di manovra, ma l’Italia non ha approfittato e oggi la normativa è più stringente”. L’emergenza è costituita dal salvataggio di quattro banche commissariate: Banca Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Popolare dell’Etruria e Cassa di Risparmio di Chieti. La Banca d’Italia aveva predisposto un intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) per circa 2 miliardi (1,2 dei quali per la sola Banca Marche). Ma la Commissione Europea ha detto di no: sono aiuti di Stato vietati.
L’inciampo europeo ha scatenato il consueto psicodramma. L’altro ieri tutte le sigle sindacali del settore hanno scritto a Padoan una lettera drammatica. I quattro istituti in attesa di salvataggio sarebbero “esposti ad un crescendo di attenzioni e pubblicità negativi, quando non a forme di vero e proprio cannibalismo, con ricadute sul rapporto di fiducia con la clientela e sulla raccolta”. Di qui l’appello al governo: “Fate presto”.
La prospettiva di quattro banche (ma di conseguenza tutte le altre) travolte da un’ondata di panico, addirittura con corsa agli sportelli per riprendersi i propri soldi, è sicuramente esagerata. Ad alimentare il clima di allarme, come sempre, non è la stampa cosiddetta scandalistica ma il meglio della classe dirigente nazionale. A fine ottobre il presidente del Ftid, Salvatore Maccarone, è andato in audizione alla commissione Finanze del Senato e ha parlato in pubblico come se fosse al bar. Ha detto, papale papale, che se non scatta il salvataggio delle quattro banche entro il 31 dicembre (nel 2016 le nuove norme europee sui salvataggi bancari renderebbero tutto più difficile) si determinerebbe uno scenario “inimmaginabile e drammatico, la sorte di queste banche sarebbe tragica”. Poi ha aggiunto la cosa che più di tutte ha irritato la Banca d’Italia, evocando un certo “nervosismo Bce” che potrebbe indurre il governatore europeo Mario Draghi ad avocare la pratica a Francoforte tagliando fuori palazzo Koch.
A poco è servita la moral suasion di Bankitalia, che ha indotto la sera stessa del 27 ottobre Maccarone a una precipitosa quanto inutile smentita di se stesso. Tra le cose dal sen fuggite del presidente del Fitd ci sono delle grandi verità. La più schietta è che, secondo lui, l’Italia ha bisogno di anni per assimilare le nuove norme europee: “Ci vuole tempo per l’assuefazione al rischio”, ha detto. Ed è vero. In fondo siamo il Paese, nominalmente a economia di mercato, dove dal 1936 (legge bancaria conseguente ai crac Credit e Comit dei primi anni ’30) non è mai fallita una banca.
I burocrati di Bruxelles faticano a comprendere la logica italiana. Padoan ieri ha minimizzato, ha detto che la discussione con gli uffici della Direzione Concorrenza “riguarda piccoli cavilli”. Ottimismo renziano. In realtà c’è un cavillone. L’Italia sostiene che i soldi del Fitd sono privati, perché li versano le banche e il fondo è governato dalle stesse banche. La Commissione europea replica con logica stringente: i soldi nel fondo vengono versati per obbligo di legge, e il loro impiego è deciso dalla Banca d’Italia, quindi sono soldi pubblici. Non fa una grinza: se i miliardi del Fitd sono privati, allora lo sono anche quelli dell’Inps, versati da privati per obbligo di legge e spesi su indicazioni del governo e della legge.
D’altra parte Bruxelles ha aperto da un paio d’anni una procedura contro l’Italia per aiuti di Stato per i 330 milioni impegnati dal Ftid per salvare la banca Tercas di Teramo. Il Fondo, che dovrebbe solo garantire i correntisti (fino a 100 mila euro di deposito) in caso di fallimento bancario, è intervenuto a fondo perduto in base alla legge che gli consente interventi del genere qualora gli costino meno del fallimento. I tecnici europei hanno contestato che a fronte dei 330 milioni spesi, in caso di fallimento della Tercas l’onere per il Fitd sarebbe stato di 333 milioni. Differenza trascurabile.
Padoan, rassegnato, ha già dato il via al piano B: sette grandi banche (Intesa, Unicredit, Ubi, Mps, Panco Popolare, Bper e Bnl) saranno invitate a mettere loro i due miliardi, veramente privati, per salvare le banche malate. Perché in fin dei conti è questo il bello, o il brutto, dell’Italia: un Paese capitalista, liberista e darwiniano, ma anche cattolicamente fedele all’idea che società e banche non devono fallire. Era un pilastro del pensiero di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze e faro ideale di Matteo Renzi, che gli ha dedicato la tesi di laurea. Ma queste cose a Bruxelles e a Francoforte non le capiscono.