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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

L’uso di Pinocchio in politica

L’ultimo Pinocchio ha il naso di Renzi, comparso anche domenica scorsa a Bologna in un manifesto della destra in piazza. Ma il penultimo indossava il riportino di Berlusconi. E se la nuova versione del Gatto e la Volpe mostra i volti di Verdini e Lotti, la stessa ditta negli anni Cinquanta era impersonata niente meno che da Nenni e Togliatti. Sempre secondo i loro avversari politici. Perché possono cambiare governanti e oppositori, geografie ideali e identità culturali, può addirittura
finire un secolo e iniziarne un altro dai contorni ancora incerti, ma la comunicazione politica italiana non può fare a meno della fiaba di Collodi. E qualcosa vorrà pur dire se quello che viene considerato il romanzo di formazione dell’identità nazionale è stato ferocemente saccheggiato dalle parti in lotta. Non solo per menare fendenti ma anche per appropriarsene con finalità pedagogica. Così al Pinocchietto socialista agli albori del Novecento farà seguito quello in camicia nera e addirittura in divisa repubblichina. Per poi rinascere nel dopoguerra a mezzo servizio tra scudocrociato e falce e martello.
Pinocchio ovvero «il personaggio fiabesco più citato nella metafora pubblica italiana». All’uso elettorale di Pinocchio dedica un denso saggio Stefano Pivato, studioso attento al rapporto tra favole e politica in un paese che tuttora abbonda di falchi e colombe, pitonesse e grilli parlanti, volpi massime e mastri ciliegia. Favole e politica è il titolo dell’ultimo volume (Il Mulino) che raccoglie il campionario di apologhi, leggende, miracolistica, fisiognomica e profezia messo in campo dalla propaganda in Italia (ma non solo da noi). E se dovessimo trovare una ragione di questo fenomeno, non bastano gli studi di Ellen Key sul Novecento come “secolo del fanciullo”. Perché oggi non si tratta più della precoce alfabetizzazione del mondo infantile, che giustificava la proiezione di un codice fantastico nel mondo adulto, ma dell’infantilizzazione allarmante di una classe politica che nel XXI secolo resta aggrappata a un immaginario arcaico, soprattutto contro le donne. O perché belle quindi pericolosissime e “dominanti” o perché di aspetto normale quindi “impresentabili”. Comunque sempre mostri temibili, da liquidare al più presto.
Nella morfologia della fiaba politica, la parte da star spetta al pupazzo di Collodi, «cucinato in tutti i modi// fino al punto che ohibò// poco o nulla ne restò», per dirla con Jacovitti che ci costruì sopra una filastrocca. E se agli inizi del Novecento era il figlio di un proletario imbevuto degli ideali del socialismo, negli anni Venti si sarebbe trasformato in un feroce squadrista che somministra l’olio di ricino e prende a calcioni il Negus. Il fascismo era riuscito a fascistizzare Garibaldi, figuriamoci se si ferma davanti al burattino nazionale, che però resta senza fata turchina. Non ce n’è bisogno – spiega Pivato – perché il ruolo salvifico può essere affidato solo al regime. Benito Mussolini, in sostanza, al posto della bella bambina dai capelli azzurro-verdi. Ancora più impressionante risulta il pupazzo arruolato nelle file della Repubblica Sociale, che da pezzo di legno diventa uomo solo dopo aver aderito al credo nazista. Ma com’è possibile questa vertiginosa metamorfosi del monello più impertinente della letteratura italiana, personificazione di indisciplina e disobbedienza? Pivato ci spiega che fu proprio questo il miracolo operato dalla pedagogia littoria: convogliare le energie eversive del personaggio contro i nemici della patria. Così Pinocchio diventa un piccolo superuomo dannunziano, eroe solitario che agisce senza la complicità dei suoi compari.
Le avventure di Pinocchio nei palazzi della politica non finiscono qui. Ed eccolo ricomparire nel dopoguerra nei panni comunistissimi di Chiodino, che ne è la versione tecnologica in sintonia con la pedagogia del reale predicata da Botteghe Oscure. Piccolo chiodo, non pezzo di legno. Figlio di padre scienziato, non più falegname. E al posto di fate, grilli e volpi canaglie, una pletora di disoccupati, operai e senza tetto. «Marxismo in pillole», tuonò il settimanale democristiano La Discussione. «Pinocchio bolscevico». Nella polemica interviene anche Rodari che naturalmente difende le storie di Chiodino uscite sul Pioniere. E ricorda che ai cattolici Pinocchio non era andato mai molto giù perché «non prega mai» ed esprime «una morale tutta umana a terrena». La polemica su Pinocchio privo di sentimenti religiosi risaliva agli anni Venti quando dal mondo dei fedeli si sollevarono voci di protesta contro il burattino che non si affida mai al Padre Nostro. Ma già durante la guerra era cominciata un’inversione di tendenza, con una lettura teologica del burattino – esemplare sintesi «di perdizione, espiazione e resurrezione» – e addirittura con la conversione di Collodi giudicato «un cattolico a sua insaputa». All’interpretazione cristologica di Piero Bargellini avrebbero presto replicato con sarcasmo i critici comunisti, proponendo di sostituire Geppetto con il Padre, la fatina con la Madonna e il corvo e le altre bestiole con i «Santi intercessori».
La disputa per la proprietà del pupazzo perdurò alcuni decenni, non solo tra scudocrociato e falce e martello, ma anche con un’incursione del socialdemocratico Saragat che ne fece il suo eroe vessato da Stalin-Mangiafuoco. Ma la favola più compiutamente pinocchiesca è quella prodotta dalla Dc in una campagna elettorale nei primi anni Sessanta: oltre al Gatto Pietruccio (Nenni) e alla Volpe Palmira (Togliatti), incontriamo un Paese degli Allocchi che promette benessere e danari ma in realtà nasconde le miserie del comunismo impersonate da Bulgarina e Polonuccia, Cecosloveta e Romenina. La guerra fredda prima o poi sarebbe finita, ma non la vocazione della politica a raccontare favole. E Pinocchio & company tuttora sopravvivono come metafora di bugia e oscuro intrigo. Sempre simbolo dell’identità italiana, ma forse in un modo che Collodi non poteva prevedere.