11 novembre 2015
In morte di André Glucksmann
Stefano Montefiori sul Corriere della Sera
PARIGI A dare la notizia della morte di André Glucksmann è stato il figlio Raphaël ( nella foto ), su Facebook. «Il mio primo e migliore amico non c’è più. Ho avuto la fortuna incredibile di conoscere, ridere, dibattere, viaggiare, giocare, fare tutto e niente con un uomo così buono e formidabile. Ecco, mio padre è morto ieri sera». In Francia l’emozione è grande per la scomparsa del filosofo 78enne. Il presidente della Repubblica François Hollande ha salutato il grande intellettuale «che portava in lui tutti i drammi del XX secolo» e che «figlio di rifugiati negli anni Trenta, ha messo la sua formazione al servizio dell’impegno pubblico per la libertà».
Daniel Cohn-Bendit ricorda quando l’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing invitò Glucksmann all’Eliseo mentre lui si trovava in Germania e aveva il divieto di entrare in Francia. Il filosofo scrisse una lettera aperta su «Le Monde» per dire al presidente che non sarebbe andato a pranzare all’Eliseo finché non fosse stato tolto il divieto contro l’amico, protagonista con lui del Maggio Sessantotto. «André è una persona gentile e dolce — ha aggiunto Cohn-Bendit a “Libération” —. Non si litiga con lui, si discute. Mi aspettavo la sua morte, era molto debole, non ne poteva più. Ma quando l’ho saputo è stato uno choc. Ho detto a mia moglie: “Ecco, non si potrà più discutere. Manca un anello nella catena del dibattito. Questo anello non ci sarà mai più. E questo mi rende profondamente triste”».
In Voltaire contre-attaque , il suo ultimo libro pubblicato nel settembre 2014, sorta di testamento filosofico, Glucksmann si scagliava contro l’abitudine ormai diffusa che consiste nel tacciare di ipocrisia e scollamento dalla realtà quanti ancora — come faceva lui — si ostinano a difendere i diritti dell’uomo, tutti accusati di essere sognatori, «anime belle» irresponsabili, magari da scomunicare sbrigativamente come «radical chic» qualora siano schierati a sinistra.
Glucksmann non è mai stato irreggimentato, non ha mai ceduto alla pigrizia del conformismo intellettuale. Ha cominciato a criticare la sinistra negli anni Settanta, quando da nouveau philosophe con Bernard-Henri Lévy denunciò gli orrori dell’Unione Sovietica, considerandoli non una cattiva applicazione di una ideologia nobile, ma l’espressione tragicamente conseguente del marxismo.
Nell’ottobre di un anno fa, Glucksmann aveva concesso al «Corriere della Sera» , il giornale con il quale collaborava da oltre trent’anni, una delle sue ultime interviste, nella quale criticava la chiusura verso i migranti e l’ossessione per l’identità nazionale della Francia. Il suo eroe era il figlio Raphaël, prima pronto a difendere le ragioni dell’apertura al mondo e del cosmopolitismo a Tbilisi e a Kiev, come consigliere dei presidenti georgiano e ucraino, e poi autore di un fortunato «manuale di lotta contro i reazionari». Per André, Raphaël era «il meglio di me».
•••
Bernard Henri-Lévy sul Corriere della Sera
Da ieri mattina, nella mia testa, tutti i Glucksmann che ho conosciuto si affollano e mi convocano in zone della memoria che non pensavo dover rivisitare così presto.
C’è l’uomo giovane e bello che arringa operai e studenti, forse una decina: la scena si svolge a Parigi, in rue du Bourg-Tibourg, nel 1969 o nel 1970, in un appartamento prestato da un «compagno progressista» per questo incontro «clandestino» organizzato da una cellula della Sinistra proletaria.
C’è il Glucksmann stratega e accorto che rivedo mentre va all’assalto di un’aula del liceo Louis-le-Grand per ridisegnare, col gesso, sulla lavagna dove ancora resistono alcuni caratteri di greco antico, le grandi linee dell’Offensiva del Têt e delle raccomandazioni che rivolge, molto seriamente, attraverso noi liceali, al generale vietnamita Giap.
C’è il Glucksmann dei beati tempi in cui si poteva ancora credere che la cuoca ha necessariamente ragione contro il mangiauomini (dal titolo del suo libro La cuoca e il mangiauomini, L’erba voglio, 1977, ndt ) e che l’occhio del popolo vede sempre nel modo giusto.
C’è il Glucksmann che faceva un po’ paura a Raymond Aron, tanto la sua conoscenza di Clausewitz era al tempo stesso perfetta e implacabile, esauriente ma fatta per cambiare il mondo. Ricordo un pranzo, nel 1978, in un piccolo ristorante della rue du Dragon che somigliava al vagone di un treno: c’era un signore molto anziano e molto cortese il quale, rendendosi conto dell’uso rivoluzionario che del suo insegnamento stava facendo il migliore dei suoi studenti, sembrava preso dallo stesso sacro terrore di Gide quando incontra per la prima volta Bernard Lazare e si accorge che qualcosa poteva essere posto al di sopra della letteratura.
C’è il Glucksmann che incantava Michel Foucault, il quale scorgeva, nei furori di André, l’esatta traduzione del suo assioma secondo cui all’inizio non c’è il potere, ma lo spirito di resistenza: il sorriso di Foucault; la gioia di Foucault. E un altro pranzo, più o meno nello stesso periodo, quando, mentre Glucksmann associava Sartre e Solženitsyn, lo spirito della Resistenza francese e quello dei refrattari del Gulag, l’autore di Sorvegliare e punire scrisse su un angolo della tavola la bozza dell’articolo sul saggio di André I padroni del pensiero (Garzanti, 1977) che con il titolo La grande colère des choses avrebbe consegnato alla rivista che si chiamava ancora «Le Nouvel Observateur».
C’è il Glucksmann che ha smesso di credere alla rivoluzione, ma non ha mai smesso di andare in collera. Una collera che in lui era come una seconda natura e imprimeva a ogni sua minima dichiarazione lo stesso tono di anatema e di rabbia.
C’è il Glucksmann stratega e quello indignato, che andavano di pari passo; in lui c’era come un duplice respiro che passava dal cuore al cervello e viceversa. Rivedo noi due, una sera di maggio del 1977, mentre percorrevamo la rue Cognac Jay, a Parigi, verso gli studi televisivi di Bernard Pivot: c’era la nostra editrice Françoise Verny, un Maurice Clavel stanco, titubante, e sul punto di passargli il testimone; sono convinto che fu allora, camminando, che gli venne in mente la famosa formula che, prima di fare il giro del mondo, fece soffiare un inaudito vento di rivolta sul tranquillo set della trasmissione letteraria di riferimento: «Le tribune del programma comune sono vuote».
C’è il Glucksmann fedele ai suoi genitori immigrati, che attraversano l’Europa in fiamme, devastata dai nazisti: ho sempre pensato che si trovasse lì la sua linea di fedeltà e di vita.
C’è il Glucksmann intransigente sui diritti degli umili non meno che sul disgustoso riflesso dell’orgoglio che gli faceva orrore nella gente potente e saccente: mai un’oncia di populismo, ma la scelta di quel piccolo che nell’uomo è secondo lui la vera grandezza.
Si dice, di alcuni scrittori, che inventano un cliché; ho avuto l’impressione, un giorno del 1995, che lui stesse inventando un popolo: infatti chi, all’epoca, a parte i lettori di Tolstoj, aveva sentito parlare del popolo ceceno e della nuova stagione infernale in cui stava precipitando? Non aveva forse la strana abitudine, del resto, di ringraziarvi quando scrivevate «ceceno» in un articolo o di mandare un telegramma quando citavate Solženitsyn?
Lo rivedo, in un anfiteatro di Città del Messico, mentre spiegava a una folla di studenti ancora castristi che era Castro che bisognava scambiare contro Pinochet: la folla brontola, gli insulti piovono; proiettili arrivano fin sul podio ed ecco che ha l’idea di proporre l’instaurazione di un «soviet nella sala» con tempo di parola uguale e alternato per loro e per noi; in prima fila, sua moglie Fanfan, che non so bene se bevesse le sue parole o gliele suggerisse.
Sento ancora chi lo derideva perché si occupava troppo dei ceceni, dei bosniaci, dei libici, degli ucraini, dei georgiani e di altri odierni dannati della terra; e lo rivedo quando osservava con tristezza e perplessità quelli fra i suoi pari che sembravano in effetti ritenere che il mondo girasse attorno alle nostre elezioni regionali e cantonali, all’identità francese minacciata o al cosmo ridotto alle frontiere della provincia gallica.
C’è il Glucksmann che aveva ragione e il Glucksmann cui accadeva anche, con lo stesso fervore e lo stesso sentimento di essere nel vero, di sbagliarsi. La grande differenza rispetto ad altri, a molti altri, è che lui lo diceva, andava fino in fondo allo smarrimento di un attimo, e aveva la religione dell’errore pensato, meditato, rivoltato: ricordo la nostra conversazione, nel gennaio del 2007, in cui mi annunciava la sua decisione di sostenere Nicolas Sarkozy; e quella di alcuni anni dopo, quando la causa dei Rom e di altre persone umili gli fece cambiare opinione.
C’è il Glucksmann che nessuna contrarietà, nessuna sconfitta, nessuna verità cosiddetta rivelata dai sedicenti esperti ha mai dissuaso dal rimanere fedele al suo modo di pensare il mondo.
Ho sotto gli occhi il magnifico testo che mi affidò un giorno in cui avevamo progettato, l’anno scorso, di andare insieme nella piazza Maidan, a Kiev: «Mi chiamo André Glucksmann, dicono che io sia un filosofo; solo la malattia mi impedisce di essere fra voi; ma vi ho donato il meglio di me, mio figlio Raphaël, che è rimasto al vostro fianco, sulle vostre barricate, e che attualmente è da voi, vicino a voi, per accompagnarvi nel vostro straordinario cammino verso l’indipendenza, la libertà, la democrazia».
Ed ho le immagini di lui, dolorose, con Mikhail Khodorkovsky appena uscito dal Gulag di Putin. Non lo vedevo da molto tempo: l’ho trovato fragile, emaciato, un po’ triste; camminava a piccoli passi, non usciva quasi più da casa, ma era bello, sempre bellissimo e, soprattutto, erano intatte la sua rivolta, la sua collera fredda contro i nuovi «moschettieri» (i vassalli di Mosca) della destra europea, e la vergogna che ci ispirano.
C’è il Glucksmann con cui m’è capitato di litigare, ma quello non fu mai, come dicevano i nostri maestri, che un altro modo di vivere insieme.
C’è il Glucksmann unico nel mettere alla gogna uomini o donne che assomigliavano, un poco, a quello che egli era stato e che pensava di aver congedato: ma ne siamo così sicuri? E la veemenza non era uno dei mezzi per essere fedele a se stesso?
Di tutte queste immagini, non so quale mi commuova maggiormente. Quando un uomo muore, non sappiamo mai quale sia la parte che svanisce, come la parte degli angeli, e quale sia quella che rimane e fa di lui il nostro contemporaneo decisivo.
(traduzione di Daniela Maggioni).
•••
Anais Ginori su Repubblica
PARIGI. Aveva imparato dalla madre, scampata dai campi di concentramento, a lanciarsi in battaglie che sembravano impossibili, a non abbandonare mai la speranza di cambiare il mondo. Dove c’era una mobilitazione in favore dei diritti umani, contro le dittature, c’era lui, aria dolce e sguardo tenace, appassionato, lo stesso con cui aveva conquistato i riflettori alla fine degli anni Settanta denunciando soprusi e ingiustizie. André Glucksmann, 78 anni, morto
nella notte tra lunedì e martedì, circondato dalla moglie, dal figlio e da qualche amico, dopo una lunga malattia, ha animato la vita culturale e intellettuale con quel misto di impegno civile e politico che rende così unica la Francia.
«Portava in sé tutti i drammi del ventesimo secolo », ha detto il presidente François Hollande ricordando così il “nouveau philosophe”, l’esponente della corrente di pensiero fondata insieme a Bernard-Henri Lévy, rompendo con il marxismo ma superando anche le divisioni schematiche tra Jean-Paul Sartre e Raymond Aron. Il battesimo fu l’accoglienza dei “boat-people” vietnamiti: una foto ritrae i giovani Glucksmann e Lévy, insieme a Sartre e Aron, ricevuti nel 1977 dall’allora presidente Valéry Giscard d’Estaing. Riuscirono a convincere il governo a dare rifugio a migliaia di profughi, un precedente che oggi assume un altro sapore vedendo l’indifferenza più o meno velata con cui gli intellettuali si sono mobilitati per i profughi che arrivano da Siria, Iraq e dal Maghreb.
I tempi sono cambiati, manca forse il coraggio di prendere posizioni impopolari, ed è rimasta solo la voglia di fare audience in un talk-show. L’intellettuale Glucksmann era molto presente sui media. Ed era questo uno dei rimproveri più diffusi contro i “nouveaux philosophes”. Ma lui non discettava senza sapere, partiva anche sul campo, in prima linea su tanti fronti, soprattutto quello contro il nuovo imperialismo russo. Non perdeva occasione per denunciare le nefandezze di Vladimir Putin, è stato tra i più forti accusatori degli abusi di Mosca nel conflitto in Cecenia. Il filosofo aveva anche viaggiato in quel paese, in clandestinità, per vedere, capire, raccontare, sempre sostenuto dall’inseparabile moglie Fanfan.
Una passione civile che ha tramandato al figlio regista Raphaël, anche lui impegnato a denunciare le trame nascoste del conflitto in Georgia e poi in Ucraina. «Ho perso il mio primo e miglior amico. Che fortuna aver discusso e scherzato, riso e combattuto con un uomo così generoso », ha scritto Raphaël.
Glucksmann veniva da una famiglia ebraica dell’Europa centro-orientale, il padre era morto all’inizio della guerra, la madre entrò nella Resistenza e venne fermata e arrestata in un rastrellamento. Il piccolo André ha vissuto a Parigi come un bambino nascosto ed è poi cresciuto in un ambiente intellettuale ricco, incrociando da studente la strada dell’intellettuale liberal dell’epoca, Aron, di cui è diventato assistente alla Sorbona.
È da questo pulpito che vive il Sessantotto. «Ci siamo incontrati allora e non ci siamo più lasciati », ricorda Daniel Cohn-Bendit. Glucksmann si immerge nello studio dei problemi geopolitici, dell’incognita nucleare, della filosofia della dissuasione. Il suo primo libro, nel 1967, s’intitola Il discorso della guerra. Si schiera con la rivoluzione maoista in Cina ma dopo qualche anno, nel 1975, opera la più spettacolare delle rotture con il marxismo militante pubblicando La cuoca e il mangia- uomini: sui rapporti tra Stato, marxismo e campi di concentramento, nel quale osserva: «Il marxismo non produce solo dei paradossi scientifici, ma anche dei campi di concentramento ». Il pamphlet ebbe l’effetto di una bomba nell’intelligentsia dell’epoca, piuttosto a sinistra, e fu venduto in decine di migliaia di copie.
«Ha dato un colpo definitivo all’ideologia co- munista in Francia», spiega il filosofo Pascal Bruckner, anche lui nel movimento dei “nouveaux philosophes”. La rottura con un certo conformismo dell’epoca ha procurato a Glucksmann molti nemici ma anche una nuova notorietà che lui ha saputo sfruttare per le sue tante cause e con azioni spettacolari come alcune famose “evasioni” da studi televisivi dove c’erano trasmissioni in diretta. Tutto serviva a diffondere il pensiero della sua corrente di pensiero in rottura con quella del comunismo reale.
Dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Urss, “Glucks” è passato all’antitotalitarismo e alla strenua difesa dei diritti umani. Negli anni Novanta, con la dissoluzione della Jugoslavia, si è schierato al fianco dell’intervento contro la Serbia e poi di quello americano in Iraq nel 2003, a cui la Francia invece non ha partecipato. Le posizioni sempre più filo-atlantiche lo hanno fatto entrare in conflitto con la gauche ufficiale, avvicinandolo a Nicolas Sarkozy, in particolare sulla guerra dichiarata al leader libico Gheddafi. Una relazione che non tutti i suoi vecchi compagni di strada approvavano e che si è infranta rapidamente sulla realpolitik con Mosca dell’allora inquilino dell’Eliseo.
Già malato, aveva firmato una petizione contro le discriminazioni dei rom e la mancanza di integrazione. Non si tirava mai indietro, nel suo ultimo libro Une rage d’enfant spiegava che era mosso dalla miseria e dall’ingiustizia, e dunque non si sarebbe mai fermato. Quando c’era un appello o una mobilitazione era sempre sollecitato e rispondeva volentieri. Negli ultimi tempi, anche se molto provato dalla sua malattia nel suo appartamento del nord di Parigi, con un grande salone in cui negli anni Settanta accoglieva rifugiati e oppositori politici, incitava gli altri a denunciare, scrivere, manifestare, perché le uniche cause perse sono quelle di chi non combatte.
•••
Cesare Martinetti sulla Stampa
Adieu Glucks, come lo chiamavano i suoi amici, addio coraggioso e indomabile nemico di tutti i nemici dell’uomo. Ecco, se dovessimo dare un nome e una faccia a quel concetto che a proposito (e spesso a sproposito) si attribuisce all’intellettuale francese per principio engagé, impegnato, quelli sarebbero il nome e la faccia di André Glucksmann. Una faccia dura, intagliata nel legno; quegli occhi aguzzi, capaci di incenerire il più duro interlocutore, ma anche di liquefarsi in lampi di improvvisa dolcezza. Quel buffo caschetto di capelli ormai grigi che pure lo faceva assomigliare a un eterno ragazzo Anni 70. Quel culot, scrive oggi Le Monde, usando questa parola che ha una simpatica assonanza con l’italiano e sta per «faccia di tolla». Quella faccia che Glucks inalberò in una sala di conferenze del centro di Mosca - era il 2000 - alzandosi davanti ai generali russi a chiedere un minuto di silenzio per le migliaia di ceceni massacrati nella guerra di Vladimir Putin.
Militanza anche corporale
L’ultima volta che la sua faccia era comparsa sui giornali è stato qualche mese fa, quando riemerse dalle memorie di epoche che sembrano la preistoria una foto di Glucks in mezzo a Jean-Paul Sartre e Raymond Aron, la sinistra estrema e la destra altoborghese, mondi e culture che più lontane non si può, tutti e tre insieme - era il 1978 - all’Eliseo per chiedere al presidente Giscard d’Estaing l’impegno della Francia per salvare i boatpeople in fuga dal Vietnam comunista. Erano i giorni tragici dei naufragi di migranti nel Canale di Sicilia e la Francia si interrogava sul perché quarant’anni fa il mondo si mobilitava e oggi, 2015, tutti facevano finta di niente. A cominciare, beninteso, dalla Francia.
Quella fotografia del ’78, che i giornali francesi definiscono oggi «leggendaria» è simbolicamente l’immagine più rappresentativa di ciò che era André Glucksmann: non banalmente un ponte tra destra e sinistra, Aron e Sartre attraverso Michel Foucault, ma l’uomo della rottura dello schema da guerra fredda Est-Ovest, destra-sinistra, nel nome dei diritti dell’uomo. E fu - quel momento - l’atto di nascita della filosofia dell’interventismo umanitario con Bernard Kouchner e i suoi «Médecins sans frontières». Era quella militanza non solo intellettuale ma anche corporale che portava Glucks là dove c’era da difendere il diritto violato o da smascherare vecchi impulsi totalitari, in Algeria o a Belgrado, dove arrivò ad arringare gli studenti serbi contro Milosevic, e naturalmente in Cecenia, a denunciare l’esperimento putiniano di trasformazione genetica di un popolo ferocemente irriducibile in un artificiale laboratorio di fondamentalismo e di terrorismo.
André Glucksmann era nato nel ’37 ai margini di Parigi, a Boulogne-Billancourt da genitori originari dell’Est, militanti sionisti di sinistra che si erano conosciuti a Gerusalemme ma che vivevano in Austria e che fuggirono dal nazismo rifugiandosi a Parigi. Militanti comunisti che istintivamente evitarono la fuga in Urss.
Da maoista a filoatlantico
Era questa l’aria di casa. E Glucks, da brillante studente di un liceo popolare, accede alla prestigiosissima Ecole Normale dove nel ’57 si laurea in filosofia e diventa assistente di Raymond Aron, il grande maestro liberale. Protagonista nel ’68, poco dopo con Bernard-Henri Lévy è però uno dei nouveaux philosophes, quelli che rompono con il marxismo dottrinario e filosovietico, quelli che hanno letto Solzenicyn e smascherato il mostro totalitario nella denuncia del Gulag. Come ha detto il suo amico Pascal Bruckner, «aveva così trasposto l’intransigenza del comunismo nell’anticomunismo». Il vecchio maoista militante del Maggio parigino, appassionato lettore di Sun Tzu e von Clausewitz, stava diventando un combattente filoatlantico, interventista ovunque ci fosse una causa apparentemente liberatrice, dall’Iraq alla Libia. Come ha detto François Hollande, «sempre all’ascolto della sofferenza dei popoli».
Sembrerebbe la parabola, quasi rituale per la nostra epoca, del militante di sinistra che invecchiando diventa di destra. Ed è così. Ma è anche qualcosa di molto più complicato, c’è quello specifico parigino che emerge dai ricordi dei suoi amici di oggi, i pranzi con Aron in un piccolo ristorante di rue du Dragon che sembrava il vagone di un treno, o il suo appartamento di rue du Faubourg-Poissonnière nel cui salone hanno dormito a terra profughi e clandestini del mondo intero e dove ieri è morto assistito dal figlio Raphaël. È l’engagement prima di ogni cosa che porta naturalmente anche a sbagliare, come nel 2007 quando offrì un inatteso sostegno a Sarkozy di cui ebbe rapidamente a pentirsi nel nome dei Rom cacciati dalla Francia. Inevitabile dire che con Glucks finisce un’epoca, quella in cui le idee erano delle passioni.
•••
Massimiliano Panarari sulla Stampa
André Glucksmann è stato un intellettuale-brand e un immancabile protagonista delle querelle che infuocavano la «Repubblica delle lettere» parigina. Insomma, un esponente esemplare dei processi di personalizzazione, tipici della società dello spettacolo, applicati al mondo culturale. Ma il pensatore? Quintessenza del fast thinker semplificatore e «da tv», secondo Pierre Bourdieu (che detestava il «genere»). E, invece, secondo gli estimatori, il padre, nella Francia dell’impegno a senso unico, di una deuxième gauche approdata infine alla ideologia dei diritti umani (con correlato interventismo umanitario), non nella sua versione postmoderna, bensì in quella - da lui rivendicata - dei droits de l’homme.
Autore di un testo importante sulla genealogia concettuale della guerra (Le discours de la guerre, 1968), filosofo politico dell’indignazione ante litteram, molto vocato alla comunicazione, dopo avere abbandonato il maoismo, Glucksmann con la corrente dei nouveaux philosophes assunse la guida di una sinistra antitotalitaria (e libertaria) concentrata soprattutto sul versante pratico della «battaglia delle idee». E che, a colpi di vittoriose strategie mediatiche, sottrasse lo scettro dell’antitotalitarismo a pensatori ben più complessi e anticipatori come Claude Lefort e Cornelius Castoriadis.
Nelle non poche contraddizioni, a Glucksmann è sempre rimasta una stella polare (che aveva indotto Michel Foucault a convenire talvolta con lui): quella del rifiuto integrale dello Stato Leviatano che aveva insanguinato il Secolo breve. Da cui l’equiparazione tra comunismo e nazismo, «abiezioni gemelle»; e non solamente il rigetto di Platone e Hegel, ma la (parossistica) individuazione (in Les maîtres penseurs del ’77) di una matrice comune alla totalità del pensiero tedesco otto-novecentesco - da Fichte a Nietzsche, compreso perfino l’incolpevole Freud - che coincideva con il germe filosofico del totalitarismo. Dalla crisi dei boat people vietnamiti fino al sostegno a tutti gli interventi militari occidentali di questi ultimi decenni (dal Kosovo all’Iraq e alla Libia), Glucksmann si è fatto intransigentemente atlantista ed è rimasto sempre un alfiere delle minoranze etniche e culturali.