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 2015  novembre 10 Martedì calendario

Dopo il disastroso fallimento di Lehman Brothers le nuove regole finanziarie impongono alle banche una patrimonializzazione più solida. Ma, nella pratica, svantaggiano le banche commerciali rispetto a quelle d’investimento, considerando i prestiti a famiglie e imprese più rischiosi di titoli e derivati

L’incubo del crac della Lehman Brothers, sebbene a distanza di un lustro e mezzo, continua ad aleggiare nella mente dei regolatori internazionali. Non poteva che essere così: quel fallimento del colosso Usa ha innescato la peggiore crisi finanziaria dal Dopoguerra e il credo delle autorità politiche e finanziarie globali è divenuto “mai più”. Le nuove più stringenti regole sul capitale delle banche a rischio sistemico vanno in questa direzione. L’assunto di base è che devi avere sufficiente capitale in grado di arginare da soli perdite eccezionali, di non ricorrere più agli aiuti pubblici e soprattutto non essere fonte di contagio per altre banche. Sul piano teorico nulla da eccepire. Solo una patrimonializzazione adeguata è il vero antidoto agli choc esogeni. Certo è un costo supplettivo per gli azionisti, ma meglio che siano i privati a sobbarcarselo piuttosto, come è avvenuto per gran parte dei sistemi bancari di stampo anglosassone, che sia la mano pubblica a farsene carico in una gigantesca socializzazione delle perdite. Come avvenuto in Gran Bretagna e in Germania con le migliaia di miliardi di sostegno pubblico all’indomani della bufera Lehman. Ma c’è un ma colossale nella traduzione in pratica del concetto più patrimonio, più garanzie di solidità. Quel ma è che ancora una volta la dotazione di capitale necessaria non è rapportata all’intero bilancio ma ai cosiddetti Rwa, cioè solo agli impieghi ponderati per il rischio. E quegli Rwa sono tipicamente più alti per chi di mestiere fa la banca commerciale vecchio stampo, mentre si riducono per le grandi banche d’affari dove spesso al credito a imprese e famiglie è destinata una porzione piccola del bilancio, per lo più è composto da attività finanziarie. Titoli e derivati insomma che hanno un grado di rischio ritenuto dal regolatore assai più contenuto se non pari a zero. E così il paradosso, tanto per fare un esempio, è che l’unica banca italiana dell’elenco delle big sistemiche, cioè UniCredit, ha più o meno lo stesso valore di Rwa di Deutsche Bank che è però grande come totale dell’attivo due volte UniCredit. O il caso di SocGen che ha un Rwa più basso della banca italiana pur avendo un attivo di bilancio più grande di una volta e mezza. E così UniCredit più piccola e più dedita all’attività canonica di prestare denaro all’economia reale si trova a dover avere livelli di patrimonio simili alle potenti investment bank inglesi, francesi e tedesche che hanno dimensioni assai più elevate. Con la reiterazione, anche questa volta, degli impieghi a rischio, anziché del totale degli attivi, si perpetua il pre-concetto che l’attività tipica del prestare denaro è fonte di pericolosità assai più incisiva che non lo scommettere miliardi di euro sull’andamento di Borse, opzioni, bond, commodity. Certo la storia dimostra che il credito in economie in affanno è fonte di sofferenze (e perdite) per le banche. Ma i veri inciampi da Lehman a Rbs (nazionalizzata) a Dexia solo per citarne alcuni sono arrivati proprio dalle investment bank. Solo un caso?