La Gazzetta dello Sport, 10 novembre 2015
Tutte le verità di Ibrahimovic, che ha appena ricevuto il suo decimo Pallone d’oro svedese
Un riconoscimento prestigioso, l’ennesimo di una carriera straordinaria. Ieri sera Zlatan Ibrahimovic ha vinto il suo decimo Guldbollen, il pallone d’oro svedese. Quasi una formalità per uno come lui, che ha scritto la storia del calcio in Svezia. Il premio esiste dal 1946, viene attribuito dalla Federazione e dal quotidiano Aftonbladet. Per Zlatan è il nono di fila: il primo l’aveva vinto nel 2005, quando giocava con la Juventus, nel 2006 si è preso una pausa (il premio andò a Fredrik Ljungberg), poi solo trionfi fino ad oggi. Con la giuria anche criticata per la sua scelta un po’ ripetitiva: «Ma c’è poco da fare, è il migliore», si giustificano i giurati. Per Zlatan la cerimonia al Globen di Stoccolma non è più una novità. Ma a certi riconoscimenti, in fondo, non ci si abitua mai. Specie se ci si chiama Ibrahimovic. «Ricordo quando vinsi la prima volta – racconta ad Aftonbladet e alla Gazzetta –. Fu un grande momento, ma non ero contento: volevo vincere ancora». Tipico di Zlatan. E con la sfida playoff contro la Danimarca alle porte, e decisiva per andare all’Europeo, il premio è anche l’occasione per ripercorrere la sua carriera. Sognando ancora di vincere un trofeo con la maglia della Svezia. Una cosa che manca nella sua bacheca, insieme alla Champions League che insegue con il Paris Saint-Germain.
Zlatan, sabato c’è l’andata dello spareggio contro la Danimarca. Come si vince una sfida del genere?
«Saranno due partite difficili. Penso all’ultimo match di Champions del Psg contro il Real Madrid. Abbiamo giocato molto bene ma commesso un errore e preso un gol. E abbiamo perso. Con la Danimarca saranno due sfide così: vincerà chi sbaglia di meno».
Quanto è importante per lei arrivare a giocare l’Europeo?
«Io voglio esserci, devo esserci. Darei e farei di tutto per arrivarci. Dobbiamo crederci fino alla fine».
Anni fa aveva detto: «Non voglio giocare quando sarò troppo vecchio». Ora ha 34 anni, il suo contratto con il Paris Sain Germain è in scadenza. Che cosa farà?
«Tutto può succedere. Mi sento bene e gioco bene. Poi fra uno o sei mesi non so. Per adesso sono in forma, e finché sento che posso dare qualcosa in campo continuerò a giocare».
E la nazionale? Con la Danimarca potrebbe essere la sua ultima partita?
«Non credo. Il mio corpo è come una macchina: più cammina, meglio funziona. La mia età non mi dice di smettere».
Infatti, raffreddore a parte, sembra in grande forma.
«Sì, sto bene. Abbiamo perso con il Real Madrid e quindi non possiamo essere contenti. Ma abbiamo giocato bene. Riesco ancora a dominare, mi sento forte, devo soltanto continuare così».
Qual è il suo ruolo nello spogliatoio del Psg?
«Mi sento parte di questo progetto fin dall’inizio. Per chi arriva adesso è tutto più facile: con il massimo rispetto per il club, io sono venuto quando ancora tante cose non funzionavano. Abbiamo costruito insieme una grande squadra».
Quindi si sente un leader?
«Non importa che cosa dicono o scrivono. Nel Psg c’è solo un capo».
Zlatan Ibrahimovic?
«Esatto, naturalmente».
Allora non ha mai pensato di lasciare la Francia per tornare in Italia?
«L’estate scorsa c’è stata un’offerta concreta del Milan. Se io avessi detto sì, avremmo fatto l’affare. Ma non siamo mai arrivati fino a quel punto, non era quello che volevo. Però ero grato al Milan (sorride quando parla dei rossoneri, ndr). Per me è il club più grande in cui abbia mai giocato. E io ho giocato in tanti club importanti. Ma il Milan non ha paragoni: come lavorano, l’organizzazione... E poi che squadra fantastica avevamo».
Le manca Milano?
«San Siro, la città, la gente, la lingua: ho ricordi bellissimi. L’ho sempre detto: l’Italia è la mia seconda casa. Mi sono trovato molto bene lì. E fosse stato per me non avrei lasciato il Milan».
Di chi fu la colpa allora?
«È un capitolo chiuso: è andata come è andata. Ora ho altri obiettivi, nel calcio e nella vita».
Tornerà mai in Italia?
«Come ho detto, è la mia seconda casa. È il posto dove sono diventato famoso, con la Juventus. All’Ajax non ero ancora una stella internazionale. In bianconero è cambiato tutto: il mondo ha aperto gli occhi e mi ha visto. A parte l’anno al Barcellona, ho giocato e vissuto in Italia dal 2004 al 2012. Ho vinto il campionato con i tre club più grandi, Juventus, Inter, Milan. Sono diventato capocannoniere, sono stato scelto come miglior giocatore. Per me quello resta il campionato migliore del mondo. E anche il più difficile per un attaccante, perché si pensa prima a non prendere gol, che a farli. In ogni caso il vostro Paese resterà nel mio cuore».
In Italia è cresciuto tanto, ma la personalità non le è mai mancata. Qual è il suo segreto?
«Un po’ è carattere, un po’ il risultato di un’infanzia difficile. Quando ero piccolo ho dovuto essere dieci volte più bravo degli altri. Nessuno mi ha mai regalato nulla. Anche gli anni alla Juve sono stati importanti: c’erano grandi campioni come Del Piero e Trezeguet. E io mi ripetevo: “Sono come loro”. Ho sempre voluto essere in prima fila, stare all’ombra degli altri non mi è mai piaciuto. Posso dire di avercela fatta».
Dicono che il suo futuro potrebbe essere negli Stati Uniti. Ma non è presto per lasciare l’Europa?
«Tutto quello che è fuori dal mondo del calcio mi interessa di più rispetto al passato: prima ricevevo proposte e le scartavo senza pensarci, presto ci saranno altri e nuovi progetti. Ma per adesso il pallone resta la cosa più importante: prendo le mie scelte da calciatore».
Ma gli Usa la attirano?
«Mi attira tutto. Ma ci deve essere un progetto serio dall’altra parte. Ho le mie idee, so cosa vorrei ma bisogna essere in due».
Nessuna offerta concreta, dunque?
«Ancora no, vedremo».
Si parla anche di un film sulla sua vita. Sarà lei il protagonista?
«Stiamo discutendo, ma è davvero prematuro pensare a chi interpreterà il mio ruolo».
In passato aveva detto: «Ho paura di svegliarmi un giorno e non sapere che cosa fare». A 34 anni, però, le idee per il futuro non le mancano certo...
«È necessario per un calciatore. Per 15 anni ogni giorno ti alzi, vai ad allenarti, ti riposi, poi giochi le partite. Sempre lo stesso. Svegliarsi senza sapere che cosa fare, dove andare, sarebbe molto duro. Per questo mi piace avere dei progetti».
Fra questi considera anche l’ipotesi di tornare a vivere in Svezia?
«Non lo so, sono partito tanti anni fa. Dovrei trovare un posto dove vivere come piace a me. Forse Stoccolma, chi lo sa. Comunque non lo escludo, dipende anche dalla mia famiglia».
Quanto contano gli affetti personali nella sua vita?
«Sono tutto: io vengo dopo di loro, sto bene solo se loro stanno bene. Poi se posso aiutare anche gli altri sono contento: ho fatto e farò beneficienza, non per apparire sui giornali ma perché so di poter trasmettere un messaggio con il mio ruolo. Ma so anche che da solo non posso salvare il mondo. La mia responsabilità più grande è verso la mia famiglia».
I suoi figli giocano nelle giovanili del Psg. Magari un giorno potrebbero essere il futuro del calcio svedese...
«Adesso non ci pensiamo: fanno anche altri sport, sono iscritti lì solamente per imparare il gioco di squadra, per fare vita di gruppo. Nessuno li obbliga ad arrivare in alto: non devono avere pressioni, l’importante è che siano felici».
Il decimo Pallone d’oro svedese è un traguardo importante. Guardandosi indietro, ha dei rimpianti?
«Non mi pento di nulla, credo nel destino: tutte le cose succedono per un motivo».
Quindi è felice della sua vita?
«Sì, ma non mi accontento mai. Il giorno in cui dirò che sono contento sarà quando avrò smesso di giocare a calcio, perché vorrà dire che non avrò più obiettivi da raggiungere. E allora vi inviterò nel mio museo».