Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2015
Milano, il dopo-Expo è il foglio bianco su cui disegnare il futuro. Prendendo esempio da quello che il pragmatismo milanese riuscì a fare cent’anni fa, con la fondazione della Città Studi
La politica per l’innovazione e lo sviluppo delle competenze culturali e tecno-scientifiche lasciano il segno nell’anima delle città e determinano – nel bene e nel male – i loro destini. Le università e i centri di ricerca non sono cattedrali nel deserto.
Il post Expo può essere il foglio bianco su cui disegnare il futuro di Milano. In una stretta correlazione con il progetto del Governo. Con una cifra integrata – Milano, Lombardia, Nord, Italia – che ha il suo primo tassello nella disponibilità degli atenei meneghini – in particolare della Statale – di giocare non in difesa, ma all’attacco, la strategica partita dei contenuti – umani e materiali, scientifici e tecnologici, educativi e imprenditoriali – con cui riempire un’area ben infrastrutturata come il sito dell’Expo.
È già successo in passato. Ci sono le condizioni perché accada di nuovo in un futuro che deve essere di rapido inveramento, perché l’unica risorsa davvero scarsa – in operazioni in cui in un nano secondo si può passare dal successo al flop, dalle potenzialità alle promesse tradite, dalla soddisfazione di avere un campus lombard-californiano al rancore di un enorme cumulo di ferraglie arrugginite – è il tempo.
Andiamo con la mente a cento anni fa. Anno del Signore 1915. Da poco più di cinque mesi l’Italia è entrata nella Grande Guerra. Il 4 novembre del 1915, all’indomani della terza catastrofica battaglia dell’Isonzo, 67mila nostri connazionali sono già caduti al fronte. Nonostante questo, il 6 novembre di quell’anno viene posata la prima pietra della futura Città Studi, il nocciolo duro da cui si sarebbe originata nel 1924 l’Università degli Studi di Milano. Questa ricorrenza è stata ricordata ieri nella nuova aula magna della Statale, nell’occasione intitolata a Luigi Mangiagalli, uno dei fondatori della Milano novecentesca a cui è stato dedicato anche il volume “Luigi Mangiagalli. Impressioni di viaggio e discorsi”, pubblicato da Skira e curato da Luca Clerici. Il 6 novembre del 1915 insieme a Mangiagalli – nell’attuale Lambrate, raccontata dalle cronache del tempo come un susseguirsi di cascine e campi buoni per gli allevatori e per i cacciatori – ci sono il geniale Giuseppe Colombo, rettore del Politecnico e fondatore della Edison, il primo sindaco socialista di Milano Emilio Caldara, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e i dirigenti della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Più gli imprenditori disposti a contribuire di tasca propria.
Lo schema di cento anni fa è quello – teorico – di oggi. Teorico, nel senso (e nell’auspicio) che le cose vadano bene: una cooperazione competitiva tipica del pragmatismo milanese – in questo i fruttuosi intenti fra i vertici attuali della Statale e del Politecnico appaiono un buon viatico – e un dialogo non egemonizzato dai livelli gerarchici fra governance locale e statuale. Naturalmente, nell’ipotesi attuale, va capita bene l’integrazione – nei processi e nella leadership sostanziale – con l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) di Genova: nel senso di una sinergia autentica fra un polo milanese, che al di là dei naturali equilibri da trovare all’interno dalla Statale (per esempio sulla futura destinazione dei luoghi che oggi ospitano le parti che si trasferirebbero nel sito dell’Expo) appare coeso in tutte le sue componenti e proiettato nei network internazionali della tecno-manifattura, e un Iit di Genova caratterizzato da una dimensione scientifica di ultima frontiera.
E va capito bene il tema delle risorse finanziarie: cento anni fa sulle 14 milioni di lire necessarie per fondare la Città Studi una buona parte era di origine pubblica (Comune, Provincia, Stato e Camera di Commercio); un milione di lire era della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Oggi – al netto della Fondazione Cariplo, dichiaratasi da tempo interessata a sostenere un centro di ricerca per la buona nutrizione – il problema dei soldi per il post Expo – quelli veri, cash, non da retorica immaginifica da business plan – resta ancora tutto da decrittare.
Il problema dei soldi fa il paio con gli assetti reali della società – pubblica e privata – che dovrà gestire l’intera operazione. Quale sarà fisionomia finale avrà questa società? Chi avrà le leve del potere reale? Chi costruirà e gestirà i budget? Di certo, il post Expo è una occasione unica per l’esercizio di una politica per l’innovazione di nuovo conio. Una opzione che, peraltro, si manifesta in un passaggio culturalmente fertile. Negli ultimi due anni, il contesto intellettuale ha visto affermarsi idee convincenti e non provinciali, con sfumature e impostazioni diverse, ma tutte convergenti sulla necessità di politiche per l’innovazione: dalla Mariana Mazzucato di “The Entrepreneurial State: debunking public vs. private sector myths” (Anthem Press) al più recente Franco Mosconi di “The New European Industrial Policy. Global Competitiveness and the Manufacturing Renaissance” (Routledge), fino alle riflessioni sui fondamenti di una nuova politica industriale anche in Italia, contenute nell’ultimo numero degli Scenari Industriali del Centro Studi Confindustria e curate dall’area Politiche Industriali diretta da Andrea Bianchi in Viale dell’Astronomia.
Tutte queste impostazioni hanno un minimo comun denominatore: definire dove un Paese vuole orientare il suo futuro. Il post Expo, se non sarà l’ennesimo esercizio di flatus vocis, servirà proprio a questo.