La Stampa, 10 novembre 2015
Giorgio Pinchiorri e la sua collezione. «Aspetto il Papa, basta che non mi chieda un prosecco»
Con lui si può parlare di vini per ore, ma non chiedetegli un Prosecco. Se poi domandate la fiorentina, meglio cambiare locale. Anzi vi ci manda direttamente, Giorgio Pinchiorri: «Alla Buca Lapi vicino a Ponte Vecchio, dove cominciai negli Anni 70. La fiorentina all’Enoteca sarebbe una presa in giro: è una specialità popolare, mentre qui solo piatti unici. Come i vini».
Il giovane Pinchiorri di Château non capiva nulla, a 72 anni ne è il principe dei collezionisti. «Sono nato a Pavullo, sull’Appennino modenese – racconta -. Dopo un incidente in moto mi sono iscritto alla Scuola alberghiera a Firenze. Un insegnante nominava vini mai sentiti. In una trasmissione tv con l’attrice Ave Ninchi vidi per la prima volta quello che sarebbe diventato il mio mentore, l’enologo Luigi Veronelli, e dei personaggi con la medaglia al collo, che poi avrei scoperto essere i sommelier con il tastevin per l’assaggio».
Tessera dell’Associazione sommelier numero 23 dal 1970, Pinchiorri diventa direttore dell’Enoteca nazionale dentro Palazzo Cioffi in via Ghibellina a Firenze, che nel 1979 prende il suo nome: «Non presentavo più solo vini toscani e italiani, ma la mia scelta». E la sua era una selezione per la prima volta internazionale. Erano in pochi allora a conoscere la Borgogna.
A Nus da don Augusto
All’inizio in abbinata c’erano salumi e formaggi, poi la moglie Annie Féolde trasformò il cucinino in uno dei ristoranti più famosi del mondo. Ora solo chi ha prenotato un tavolo può visitare la cantina, che Veronelli definì «immensa, leggendaria, inimitabile». Centomila bottiglie, valore inestimabile: «Nel 1992 dissi 8 miliardi in tv e pochi giorni dopo misero una bomba. Impiegai quattro anni per ricostruirla, ma nella vita bisogna combattere. Per la distrazione, l’Enoteca perse pure la terza stella, poi riconquistata».
Il segreto di questa ex stalla, che una volta ospitava 40 cavalli e poi il carbone per il riscaldamento, è la collezione privata di Pinchiorri: «Custodisco dei vini che non hanno prezzo per quotazione o per motivi sentimentali». Quelli conquistati con la passione. Perché ogni bottiglia è un viaggio. Ne parlava a notte fonda con Veronelli: «Mi telefonava all’una per dirmi di andare a sentire il Picolit Perusini friuliano, il Ronco del Re di Castelluccio in Romagna o la Malvasia in Val d’Aosta».
A quest’ultimo suggerimento Pinchiorri deve uno dei suoi viaggi di formazione: «Tra Aosta e Saint-Vincent trovai la chiesetta di don Augusto Pramotton, il leggendario riscopritore della Malvasia di Nus. Per chiedergliene qualche bottiglia dovetti seguire messa. Ora che non c’è più, quei pezzi irreplicabili sono tra le rarità della mia collezione».
In Francia con la moglie
Anche se non cede ai sentimentalismi, lui che esporta vini in Giappone come secondo lavoro e, dopo aver festeggiato il milionesimo cliente all’Enoteca, sta per aprire a Dubai e Bangkok dopo Tokyo e Nagoya, ricorda ancora l’ultima cena con l’amico Luigi Pira, «straordinario produttore di Barolo che dopo poco si buttò nel pozzo», o certi viaggi in Francia con la moglie Annie: «Andavamo alla scoperta a marzo e ad agosto. Una volta, col pane in tasca per gli assaggi, ci fermammo davanti a casa di Henry Jayer, che si affacciò: “Sto mangiando”. Lo aspettammo e il suo Richebourg del 1978 è considerato oggi l’introvabile magnum di uno dei migliori cru della Borgogna».
Tra gli altri pezzi unici della collezione, un Château Lafite del 1959 «ma, attenzione: bianco, prodotto solo in determinate annate». E poi, grande orgoglio di Pinchiorri, la serie 1 del 1985 di Romanée Conti: «Tutta eh, compresi magnum e doppio magnum». Non manca il Pétrus, di cui ha ogni annata dal 1900. Tra gli italiani, colleziona il Chianti di Savignola Paolina, il Tignanello Antinori e il Sassicaia della Tenuta San Guido, «senza dimenticare quel gran piemontese di Angelo Gaja col suo Sorì Tildin, dal nome della nonna».
«Aspetto il Papa»
Dopo Italia e Francia, Pinchiorri classifica la California, «che ci supera con lo chardonnay Simi e i rossi Harlan Estate e Screaming Eagle. Grandi pure gli spagnoli Ribera del duero, Pingus e Unico». Lo champagne degli champagne è «il Dom Pérignon per nomea, ma Krug e Bollinger sono superiori». Tiene testa ai francesi Ca’ del Bosco, «il Franciacorta di Maurizio Zanella dal buon rapporto qualità prezzo».
Ma si può bere bene spendendo poco? «In questo senso il miglior vino del mondo è il Giodo di Carlo Ferrini, rosso di Montalcino che diventerà un Brunello. E il Richiari di Vittorio Fiore, chardonnay del Chianti che rivaleggia coi friuliani». Un bianco toscano, rarità che dimostra l’attenzione di Pinchiorri per la geografia: «Ci sono vini che meritano di essere ordinati da lontano, altri che è meglio lasciare dove stanno preferendo le specialità locali».
Per completare la sua lezione gli chiediamo del bianco sulla carne: «A meno che non sia selvaggina col tartufo, se non è un matrimonio perfetto è un fidanzamento con amore». A provare le accoppiate di Pinchiorri sono passati tutti: «Veniva Renzi quando non era ancora noto, intenditore che mi dava del filo da torcere. Altri nomi non ne faccio, ma mi mancano solo Putin e il Papa. Francesco sta per arrivare a Firenze [oggi, ndr]: lo invito in ginocchio, basta che non mi chieda Prosecco e fiorentina».