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 2015  novembre 07 Sabato calendario

L’Egitto "israelianizzato" di al-Sisi alla prova dell’Isis

Quando la disorganizzazione del traffico supera il livello del caos e la sopraelevata 6 Ottobre è una coda ininterrotta di auto lungo tutti i suoi 20 chilometri e mezzo; quando i semafori di piazza Tahrir finalmente funzionano per dimostrare che i pedoni sono più indisciplinati degli automobilisti, vuol dire che in città le cose stanno andando bene. Ed è vero, se si considera il relativismo mediorientale: se l’unità di misura sono le guerre civili e le intifade alle frontiere, d’improvviso l’Egitto è diventato un paese tranquillo.
Per gli egiziani lo rimane anche adesso, nonostante l’ipotesi dell’attentato a Sharm al-Sheikh prenda sempre più corpo. Ora anche la Russia ha deciso di sospendere i voli commerciali verso l’Egitto. Ma se la pista verrà confermata ci sarà più consenso, non meno per il presidente al-Sisi; più richiesta di forza, non di clemenza verso ogni forma di opposizione – terroristica o meno – fra la gente che vuole normalità a qualsiasi prezzo. L’eventuale atto terroristico nel Sinai non incrina il consenso interno verso al-Sisi, minaccia quello degli investitori internazionali chiamati a sostenere la ricostruzione del paese. Ma come lo fu nel momento più caotico delle proteste e poi del golpe militare, ancor più oggi l’Egitto è economicamente e strategicamente troppo importante per essere lasciato fallire.
Ad agosto sono stati contati “solo” 177 attacchi terroristici: ma a luglio erano stati 191. La notizia che le autorità hanno perseguito o arrestato 51 giornalisti nell’unico mese di settembre, suscita poco interesse e ancor meno indignazione. Come le elezioni parlamentari che Abdel Fattah al Sisi ha indetto nell’indifferenza generale per provare l’irrilevanza dei partiti. La gente crede solo a lui, l’uomo che nonostante tutto ha impedito all’Egitto di finire come la Libia e la Siria. Insieme alle opere pubbliche faraoniche – il nuovo canale e la nuova capitale amministrativa, per gli egiziani storiche semplificazioni popolari di un’economia in marcia – la fonte del suo grande consenso è la sicurezza: ogni ostacolo o opposizione al potere costituito è assimilato al terrorismo. Gli egiziani si sono in un certo senso israelianizzati.
Ma quello che sollecita di più l’innato nazionalismo dell’unico paese arabo che con piccole e grandi modifiche ha un’unità statale da circa 5mila anni, è il progetto di Abdel Fattah al Sisi: riportare l’Egitto alla guida del mondo arabo. Il ritorno sulla scena dei russi è di grande aiuto: come ai tempi di Nasser, il modello ossessivamente richiamato da al Sisi, permette di non dare per scontato che l’Egitto sia un cliente americano. Il governo ha appena acquistato per 1,2 miliardi di euro le due navi d’assalto porta elicotteri francesi che dopo la guerra ucraina i francesi non avevano più venduto ai russi. Con le due navi, le forze armate diventeranno le dodicesime più potenti del mondo: due posizioni prima delle israeliane.
Il Medio Oriente arabo è politicamente statico. Le alleanze si fondano su fedeltà religiose e lealtà familiari ma il passaggio dal campo amico a quello nemico è mutevole. Il ritorno della Russia nella regione, da oltre un mese con evidenza militare ma diplomaticamente sempre più attiva da almeno un paio d’anni, ha rimescolato le carte. Il fronte con l’Iran, il regime di Damasco, Hezbollah libanese e in parte il governo iracheno, che l’intervento russo ha consolidato, ha spinto gli altri a irrobustire quello opposto. Rinunciando alle differenze che li avevano divisi, Arabia Saudita, Emirati, Qatar e Turchia ora hanno obiettivi comuni più chiari.
Lo scontro su come trattare i Fratelli musulmani, non c’è più. In nome dell’unità sunnita contro gli sciiti, non sono più dei nemici. Ma non per gli egiziani che a causa di questo sono vicini a una clamorosa rottura con i sauditi. È questo sentirsi di nuovo nel grande gioco che interessa di più gli egiziani, sempre più convinti – esattamente come i russi – che l’Isis sia un’invenzione americana per impedire al paese di tornare grande. Soprattutto adesso che l’Arabia Saudita dimostra di avere i soldi ma non le qualità per guidare la regione, e la famiglia reale appare sempre più divisa. L’incapacità del regno di diventare la potenza militare sunnita dà ancora più forza alla terza via egiziana.
In un angolo di piazza Tahrir, dove è brevemente passata l’illusione che il Medio Oriente dovesse prendere la strada della democrazia, stanno abbattendo il vecchio quartier generale del partito di Mubarak. Qualche metro quadrato di cemento al giorno, escluso il venerdì e le feste, non è la rapidità con la quale un nuovo regime distrugge i simboli del vecchio. Ma è la restaurazione– rais, esercito, patria e Islam moderato – il pilastro sul quale al Sisi sta costruendo la sua alternativa. Continuità, è la formula che l’Isis non può minacciare.