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 2015  novembre 10 Martedì calendario

Gli allenatori sovietici mettevano incinta le ginnaste per garantire un’iniezione naturale di ormoni (dopo le medaglie abortivano). Adesso i russi dicono che è tutto un complotto contro di loro

Chi sostiene che la Russia di Vladimir Putin non vuole perdere i vizi dell’ex Urss ha, ora, un argomento di cui armarsi. Lo scandalo del doping degli atleti russi scoppia mentre è ancora in corso il braccio di ferro tra Russia e Occidente sull’Airbus esploso nel Sinai.
Ed è ancora braccio di ferro sui raid aerei russi in Siria, mentre è agli sgoccioli lo scontro sull’Ucraina. Già nei primi minuti dopo l’annuncio del rapporto choc della Wada le reazioni da Mosca hanno seguito il solito copione: smentita indignata, con allusioni più o meno trasparenti al fatto che le accuse hanno un obiettivo recondito, politico, di far fuori una Russia diventata troppo forte. Nello sport, nelle guerre, nell’economia. Lo stesso tipo di tattica difensiva – diniego, controaccuse complottistiche, con a margine qualche ammissione del tipo «sì, usiamo il doping, ma chi non lo usa, anzi, gli americani sono peggio e poi fanno gli innocenti» – già visto sui dossier più disparati, dalla Crimea alla libertà di stampa, alla repressione dell’opposizione, alla legge anti-gay, fino alle recenti accuse di bombardare in Siria solo gli avversari di Assad e non l’Isis.
Nello sport poi la Russia si sente sotto tiro da anni, e le numerose sospensioni per doping di atleti famosi sono sempre state accompagnate da un coro indignato di denunce e accuse di complotti «antirussi». Complice anche un presidente molto atletico, lo sport è tornato (dopo gli anni di declino postsovietico, con Boris Eltsin appassionato solo all’elitario tennis) strategico. Putin si è impegnato personalmente per aggiudicarsi Olimpiadi e Mondiali. La trionfale conta delle medaglie a Sochi è stata forse un doping politico per andare, pochi giorni dopo, a conquistare la Crimea e, con il nazionalismo a sostituire il comunismo, una medaglia russa viene propagandata come prova della supremazia di Mosca, «un retaggio della guerra fredda», come ha detto ieri il fondatore della Wada, Richard Pound.
Mazzette, non solo ideologia
Non stupisce che il doping di Stato, ereditato dall’Urss dove le ginnaste venivano messe incinta dagli allenatori per una «iniezione naturale» di ormoni (dopo il campionato il feto veniva abortito), gli allenatori distribuivano pillole di «vitamine» a manciate e istituti di ricerca governativi raccomandavano gli anabolici, sia tornato, insieme alle intimidazioni degli «allenatori in borghese». Come una volta, la vittoria viene ordinata al più alto livello. Sintomatico il sondaggio lampo sul sito del quotidiano Sport-express, con il 60% dei lettori convinto che i russi abusino di doping, e il 70% che lo ritiene argomento di «importanza statale». Quello che cambia rispetto al comunismo è che all’ideologia si affianca il profitto: si parla di mazzette estorte dai funzionari agli atleti per occultare le prove positive, e alla competizione politica si aggiunge il rischio di perdere guadagni a sei zeri, e appalti miliardari come a Sochi, non a caso l’Olimpiade più costosa della storia.
Sospetti strumentali
Come già accaduto qualche mese fa con lo scandalo Fifa: i sospetti su Blatter erano vecchi almeno quanto le indagini sul doping russo. Ma la trasformazione di Mosca da quasi amica in nemica rende più facile certe denunce, che in altri tempi sarebbero state più prudenti per non mettere in imbarazzo nessuno. Ora invece qualcuno potrebbe anche apprezzare le rivelazioni come un’umiliazione del Super-Putin. Confermando così ai russi che sono vittime di un complotto per umiliarli. Pound spera che la Russia capirà che «è arrivato il momento di cambiare». Ma è più probabile che, se perdesse i Mondiali 2018, o non andasse a Rio, la vivrebbe solo come una punizione ingiusta dell’Occidente.