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 2015  novembre 07 Sabato calendario

Il federalismo, una riforma nata male (nel 2001) e gestita peggio

Con la legge di stabilità che – lo hanno sottolineato i tecnici di Camera e Senato – impone risparmi effettivi alle Regioni nel triennio 2017-2019 per 17 miliardi (3,6 miliardi nel 2016), la questione della contabilizzazione dei debiti pregressi risolta ieri per decreto andava affrontata in effetti con urgenza. Il punto è che siamo tuttora alle prese con un federalismo incompiuto, con le conseguenze nefaste di una riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, e dei suoi successivi epigoni, nata male e gestita ancor peggio.
Una riforma immaginata per ridisegnare i confini delle competenze tra Stato e Regioni, ma che nei fatti ha prodotto l’inevitabile lunghissima sequenza di ricorsi inviati alla Consulta: 120 l’anno, uno ogni tre giorni, un contenzioso infinito fatto di oltre 1.500 impugnazioni di leggi, che hanno generato quasi mille sentenze dei giudici. Dal 2001 al 2014, lo Stato ha sollevato il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale per 871 leggi regionali. Non si può non rilevare questa clamorosa anomalia, quando si mette in campo una manovra di finanza pubblica che nel 2016 produrrà risparmi per 7,3 miliardi su una spesa totale che ammonta a 831 miliardi (il 50,9% del Pil).
Il decreto varato ieri dal Consiglio dei ministri sana un pasticcio contabile insorto attorno ai criteri di contabilizzazione dei fondi anticipati dal Governo alle Regioni, per far fronte ai debiti contratti con i fornitori. Risorse che in alcuni casi sono state impiegate per alimentare la spesa corrente. Una vicenda che trae origine dal decreto legge 35 del 2013, attraverso cui sono stati stanziati 40 miliardi per accelerare i pagamenti pregressi delle amministrazioni pubbliche. Questione complessa, finita davanti alla Corte costituzionale che si è pronunciata nel giugno scorso, con la Corte dei conti che ha certificato di conseguenza un deficit del Piemonte di circa 6 miliardi, e che ora si chiude con la decisione di consentire alle Regioni di restituire in 30 anni i fondi girati dallo Stato per pagare i fornitori.
Pasticcio contabile, ma non solo. La vera questione ha ancora una volta a che fare con scelte politiche chiare e coraggiose. Una vera e incisiva spending review non può che passare attraverso la ridefinizione dei diversi centri di spesa, e la contestuale riallocazione e razionalizzazione sia delle risorse di competenza delle amministrazioni centrali che di quelle in capo alle autonomie territoriali. In caso contrario non potrà che continuare a prevalere la logica dei tagli lineari o semilineari, e a ogni varo della legge di stabilità si assisterà al rituale balletto di cifre sul miliardo in più o in meno che viene assegnato alla sanità, sia rispetto all’anno precedente (nel caso della manovra all’esame del Senato un miliardo in più da 110 a 111 miliardi), sia rispetto alle intese sottoscritte in corso d’opera (in questo caso 2 miliardi in meno, dai 113 miliardi promessi ai 111 stanziati).
Riformare e riqualificare il perimetro e il raggio di azione delle amministrazioni centrali e periferiche: ecco il compito primario di una vera spending review, esercizio politico a tutto tondo che se ben condotto consente di riprogrammare la spesa attraverso il criterio della riqualificazione delle risorse. Finora non è andata esattamente così: negli anni del risanamento forzato, le manovre sulla spesa sono state indirizzate pressoché integralmente al riequilibrio dei conti pubblici. Al pari degli interventi sul versante delle entrate, magna pars delle tre manovre correttive varate nel 2011 per spegnere l’incendio che stava travolgendo la nostra economia. Il punto è che le vere riforme (e la spending review è riforma strutturale di prim’ordine) vanno impostate e realizzate per quanto possibile al di fuori di un’ottica di emergenza. È possibile affrontare il tema fondamentale della riqualificazione della spesa pubblica non più con la «veduta corta», di cui parlava Tommaso Padoa-Schioppa, che peraltro una spending provò a metterla in campo?
Da questo punto di vista, la manovra “espansiva” varata dal Governo, pur apprezzabile da diversi punti di vista (il primo è il taglio della pressione fiscale), offre risposte ancora parziali sul versante della spesa. A conti fatti, se si escludono i 2 miliardi ascritti alla voce “ulteriori efficientamenti”, l’asticella della “spending” si ferma a poco più di 5 miliardi. Il processo di spending review «continua e non ci sono singhiozzi», rassicura il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e vi è da augurarsi che così sarà poiché nel 2017 occorreranno risorse ben più consistenti, per disattivare le clausole di salvaguardia che nel 2017-2018 ammontano a circa 35 miliardi.