la Repubblica, 10 novembre 2015
Negli ultimi diecimila anni il nostro spazio vitale s’è ridotto di mille volte
La crescita di popolazione nei paesi poveri aumenta disuguaglianze e migrazioni. Un saggio di Livi Bacci
Negli ultimi diecimila anni la Terra si è ristretta di mille volte. Ogni essere umano disponeva agli albori dell’èra agricola di 13,5 chilometri quadrati, pari a un quarto di Manhattan. Nel 2050, quando saremo dieci miliardi, il suo spazio sarà ridotto a un millesimo, pari a un campo di calcio. Da questa constatazione muove l’appassionante studio di Massimo Livi Bacci, demografo dell’Università di Firenze, sui percorsi della popolazione mondiale nel tempo e nello spazio storico ( Il pianeta stretto, il Mulino, pagg.169, euro 14). E sulle sfide geodemografiche attuali, in un mondo antropizzato per più della metà della sua superficie e sempre più diseguale sotto il profilo del popolamento. Con le conseguenze ambientali, economiche e geopolitiche che chiunque non voglia mettere la testa sotto la sabbia può già intravvedere. Livi Bacci osserva che il fattore demografico tende a essere sottovalutato nel dibattito delle organizzazioni internazionali impegnate a disegnare scenari sul futuro dell’umanità e a proporre criteri per gestirne le criticità. Il mantra dello “sviluppo sostenibile” – concetto già sufficientemente vago – tratta come ancillare la questione demografica. Quasi che il raggiungimento dei limiti fisici e biologici del pianeta, per vari aspetti prossimo per altri ancora lontano, non abbia molto a che vedere con l’andamento demografico. Di recente, l’esplodere in Europa della questione migratoria – cui Livi Bacci dedica un penetrante capitolo, inquadrandola nel contesto della “quarta globalizzazione” – ha almeno in parte riportato l’attenzione mediatica sulle sue radici geodemografiche.
L’autore rifugge ogni determinismo. Confida anzi nella capacità umana di regolare i propri comportamenti demografici sotto la pressione delle mutevoli circostanze ambientali, geopolitiche ed economiche. Ciò che negli ultimi due secoli ha disegnato la “transizione demografica”, ovvero la prevalenza delle scelte dei singoli individui, sia per quanto riguarda la riproduzione che la sopravvivenza, sui meri condizionamenti biologici. Ma questa transizione resta largamente incompiuta nelle aree più sfortunate del pianeta. Sicché le tendenze demografiche nel mondo sono fortemente diseguali: mentre intorno al 2050 nei paesi relativamente benestanti la popolazione, mediamente sempre più anziana, resterà stazionaria o declinerà (come in Europa, Cina e Giappone), nell’Africa subsahariana e in alcune regioni asiatiche il numero degli abitanti raddoppierà, in un contesto di povertà e di instabilità geopolitica. La diversa cadenza della “transizione demografica” contribuisce ad alimentare la disuguaglianza fra paesi poveri e poveri ricchi e a rendere sempre più problematico l’equilibrio fra pressione della popolazione e risorse disponibili nelle aree critiche del pianeta. Si consideri solo questo dato: nell’Asia orientale 1,6 miliardi di persone hanno una fecondità inferiore a 1,6 figli per donna, sotto la soglia di rimpiazzo fra generazioni – lo stesso vale per il mezzo miliardo di europei. Al polo opposto, nell’Africa subsahariana, un miliardo di persone hanno una fecondità media di 5 figli per donna. Quest’ultimo dato significa che il Mediterraneo è destinato a diventare sempre più una ripida paratia di separazione – sfidata a rischio della vita da milioni di migranti – fra due mondi in crescente divaricazione demografica. Con le conseguenze, specie in campo migratorio e geopolitico, che stiamo cominciando a sperimentare. Cacciata dalla porta, la demografia rientra dalla finestra. Chi continua a sottovalutarla o a escluderla dalle analisi sulle criticità del pianeta e dalle strategie geopolitiche, lo fa a proprio rischio e pericolo.