Libero, 8 novembre 2015
Se la prosa è solo «una forma di prostituzione», la politica «il livello più basso della vita spirituale» e l’estetica «viene prima dell’etica». Conversazioni con Brodskij, il poeta russo finito tre volte in galera, due in un ospedale pscichiatrico: «Ma questo non ha influenzato minimamente la mia scrittura»
Espulso dall’Unione Sovietica nel 1972, proprio come da scuola, a soli 15 anni. Espulso anche dalla banalità delle convenzioni sociali, delle regole del galateo letterario e politico, verrebbe da dire. Lui è Iosif Brodskij, nato a Pietroburgo nel 1940 e morto a New York nel 1996, uno dei massimi poeti del secondo Novecento. A nulla varrebbe mostrare la sua grandezza citando versi: meglio invitare a leggerli (l’opera completa è in corso di pubblicazione da Adelphi) in una sorta di religioso raccoglimento. Magari preparandosi con la raccolta di interviste a cura di Cynthia L. Haven da poco uscita in libreria (Conversazioni, Adelphi, pp. 314, euro 20), dalle quali si capisce innanzitutto che uomo era.
Poeta laureato, Nobel senza troppa convinzione («Penso che tu sappia fino a che punto il premio Nobel dipenda dal caso e che importanza relativa abbia»), ebreo piuttosto noncurante, voce eternamente fuori dal coro, Brodskij era un concentrato di brutale sincerità e di autonomia di pensiero. A noi italiani dovrebbe essere particolarmente caro. Era russo fin nel midollo, infatti, ma con un occhio rivolto a Occidente e in particolare all’Italia, che considerava la culla della civiltà. Commuove quando dichiara di avere il sospetto di essere stato influenzato da Montale, perché non era tipo da farsi influenzare da chicchessia, neanche da Auden, che pure apprezzava molto, anche come amico. Amava poi profondamente Venezia, come Ezra Pound, e come il poeta americano ha scelto di esservi sepolto. Le ha dedicato un libro, Fondamenta degli incurabili, che è un autentico capolavoro in prosa.
In Conversazioni confluisce un po’ di tutto. Uscita negli States nel 2002, l’antologia copre l’intero arco della sua vita in esilio. Raccoglie interviste apparse su testate note e altre su riviste chiuse dopo pochi anni, rendendo testimonianza di una memoria altrimenti destinata a disperdersi. Ma non si creda di essere alle prese con un libro di facile lettura. Brodskij era una brutta bestia da intervistare, nonostante la gentilezza e la semplicità che traspaiono da ogni sua dichiarazione. C’era innanzitutto da rispettare la pausa sigaretta: fumava come un matto, in barba ai problemi cardiaci che lo avrebbero portato a una morte prematura.
Ciò che gli premeva era la poesia, l’assonanza tra i suoni, il ritmo, la musicalità, la classicità del verso spezzata da contenuti assolutamente nuovi. Per lui il linguaggio era tutto. E di lì non si lasciava schiodare tanto facilmente. Del resto, l’autore di Fuga da Bisanzio, vittima del sistema sovietico, disse che la politica è solo il primo gradino di una scala molto più grande, «il livello più basso della vita spirituale». E che l’estetica viene prima dell’etica. Al tempo del politicamente corretto, potremmo quasi definirle due bestemmie. Perciò fanno anche un po’ tenerezza i giornalisti che gli chiedono invano di parlare di sé, ottenendo silenzi o dichiarazioni sotto certi aspetti incredibili, per la noncuranza che Brodskij mostrava nei confronti della propria tortuosa biografia: «Non mi piace parlarne (della prigionia, ndr). È come darsi delle arie. È roba melodrammatica». E ancora: «Mi hanno messo tre volte in galera e due volte in un ospedale psichiatrico, ma questo non ha influenzato minimamente la mia scrittura».
In Russia infatti era persona poco gradita fin da giovane. Nel 1964 è processato per vagabondaggio, corruzione di gioventù, distribuzione di opere di autori proibiti, disoccupazione. Gli contestano «di essere un decadente e un modernista», ma la sua unica colpa è quella di scrivere. Nonostante tutto ciò Brodskij non si lamenta, non trasforma il suo martirio in un altare di carta. È forse una caratteristica di chi è destinato a durare a lungo: pensare ai fondamenti e lasciar perdere il resto.
Se a ciò si aggiunge che per lui la prosa era «una forma di prostituzione», ammettendo di scrivere solo «per necessità», si ha il quadro di una personalità inattuale e scomoda. Guai a parlargli di religione, che considerava un aspetto intimo dell’esistenza. Anche qui, poche concessioni al buonismo. Altroché accoglienza: «Penso che la visione musulmana dell’ordine universale debba essere schiacciata e annullata», proferiva candido nel 1989.