il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015
La storia del Tricolore italiano riletta da Marco Travaglio (in chiave francese)
La prima volta che una bandiera bianca rossa e verde sventolò in Italia, fu a Milano 500 anni fa: l’11 ottobre 1515. Quel giorno – lo racconta nel suo diario un francese al seguito del suo re Francesco I – il popolo milanese salutò il trionfale ingresso in città del sovrano transalpino issando in cima al Duomo “un pavillon ouvert des deux côtés, de couleur blanc, rouge et vert”.
Quei tre colori non erano totalmente nuovi, per i meneghini. Alcuni storici riferiscono che già la duchessa Caterina Visconti, in un’ordinanza del 1397, aveva citato le divise bianche, rosse e verdi dei “servitori del Municipio”. Ma va detto che, per scovare un padre italiano alla bandiera italiana, i nostri storici più sciovinisti si sono attaccati a tutto. Persino a una terzina del Purgatorio di Dante Alighieri, dedicata all’amata Beatrice Portinari (“Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva”). E addirittura al conte Giuseppe Balsamo, alias Cagliostro: qualche anno prima della Rivoluzione Francese, il grande imbroglione avrebbe riformato le regole della Massoneria Francese di Rito Egiziano, aggiungendo un’ennesima bizzarria alla cerimonia d’iniziazione: “La benda posta sugli occhi deve essere di seta nera terminata in tre ale. Una di queste ale deve essere bianca, una rossa ed una verde”. La riforma, estesa alle logge italiane nel 1794, avrebbe offerto ai “franchi muratori” nostrani un prezioso suggerimento per la scelta della bandiera.
Tutto per non riconoscere che il nostro tricolore è un vessillo d’importazione francese e che il suo vero papà è Napoleone Bonaparte. Il quale, il 16 maggio 1796, entra in Milano sulle orme di Francesco I, ne fa la capitale della Repubblica Lombarda e ordina alle figure pubbliche di indossare il tricolore della Rivoluzione francese (azzurro, bianco e rosso). Ma i cittadini, sulle coccarde, iniziano a esibire il verde al posto dell’azzurro.
E qui gli storici si sbizzarriscono. Forse il verde ricorda la bandiera che aveva accolto Francesco I nel 1515, rimasta in qualche almanacco. Forse rappresenta – nel simbolismo massonico ereditato dai giacobini – la natura e i diritti naturali di uguaglianza e libertà. O magari si è deciso di aggiungere alla divisa bianco-verde della Milizia urbana creata da Bonaparte il rosso del berretto frigio francese, simbolo della libertà. Infine c’è chi ricorda che il bianco e il rosso comparivano nell’antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa in campo bianco), mentre verdi erano fin dal 1782 le uniformi della Guardia civica milanese. Nel settembre 1796 la Repubblica Lombarda diventa Cisalpina. E lì i milanesi non si limitano a coccarde e pennacchi, ma sventolano anche le prime bandiere tricolori. L’11 ottobre Napoleone arruola la Legione Lombarda e informa Parigi: “I colori nazionali che i patrioti hanno adottato sono il verde, il bianco e il rosso”. Poi annuncia l’intenzione di reclutare nella Repubblica Cispadana (Bologna, Modena, Reggio e Ferrara, strappate dai francesi allo Stato Pontificio) “la prima Legione Italiana”. E il 18 ottobre emana il regolamento: “Ogni corte avrà la sua bandiera a tre colori nazionali italiani, distinta per numero e adorna degli emblemi di libertà”.
Il 7 gennaio 1797 è una data storica: le città della Repubblica Cispadana, riunite a congresso a Reggio, stabiliscono che “lo stemma della Repubblica si innalzi nei luoghi pubblici dove è costume di tenere insegna di sovranità, che la bandiera nazionale verde, rossa e bianca abbia l’impronta del turcasso ed il motto ‘libertà senza rivoluzione’”. E il Parlamento cispadano, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, decreta che “si renda universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di Tre Colori Verde, Bianco e Rosso, e che questi tre Colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debba portarsi da tutti” (200 anni dopo meno uno, nel 1996, il governo Prodi istituirà la Festa Nazionale del Tricolore proprio per il 7 gennaio).
Intanto, il 16 maggio 1797, il tricolore bianco-rosso-verde diventa obbligatorio per “tutti i cittadini della Lombardia e i Cispadani”. L’ordine è direttamente di Napoleone: “Il Generale in capo proibisce espressamente a qualunque individuo, eccettuati i militari egli impiegati dell’Armata, di portare i tre colori francesi; e proibisce egualmente a chicchessia, esclusi i cittadini della Lombardia e della Cispadana, di portare i tre colori italiani”. Colori che diventano dal 1802 al 1814 il simbolo della Repubblica Italiana.
Nel 1814-1815, caduto Napoleone, le vecchie dinastie si riprendono i troni d’Europa, ciascuna con le proprie insegne. Il bianco-rosso-verde torna a garrire sui pennoni di Torino e Napoli con le rivoluzioni del 1820-‘21, ma solo per pochi mesi. Poi, dopo la repressione, viene ricacciato nelle catacombe della cospirazione fino ai moti del 1831. Giuseppe Mazzini ne fa il vessillo della Giovine Italia, mentre Giuseppe Garibaldi lo porta con sé in America del Sud. E solo nel 1848 torna a sventolare a Milano sulle barricate delle Cinque Giornate e sulla cima del Duomo. Il governo provvisorio della Lombardia lo adotta il 17 aprile come bandiera della Guardia Nazionale. E lo inalberano anche i governi di Venezia, Emilia, Toscana, Romagna, Lazio e Due Sicilie.
Re Carlo Alberto, nello Statuto timidamente liberale concesso il 4 marzo, mantiene il vecchio vessillo del Regno di Sardegna (e lo stesso han fatto, nelle loro Costituzioni “liberali”, Pio IX a Roma, Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Borbone a Napoli). Ma a Genova già il 6 marzo sventola dappertutto il tricolore italiano. E il 23, subito dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, Carlo Alberto si affaccia al balcone di Palazzo Reale accanto ai rappresentanti del governo provvisorio milanese, con una fascia tricolore fra le mani, acclamato dalla folla al grido di “Viva l’Italia! Viva Carlo Alberto!”. Poi inaugura il Senato Subalpino a Palazzo Madama, dove viene esposta per la prima volta la bandiera verde, bianca e rossa.
Nella notte il Re prepara il suo proclama “Ai Popoli della Lombardia e della Venezia”, che si chiude così: “E per meglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana”. Un segretario del ministero dell’Interno, tale Bigotti, viene incaricato di disegnare il modello – tricolore con al centro lo scudo dei Savoia bordato di azzurro – che viene trasmesso a tutte le migliori sartorie di Torino.
Ma il 25 marzo il 14° corpo Fanteria, prima di partire per Milano, non ha ancora ricevuto neppure una bandiera. Per non deludere le popolazioni lombardo-venete, si decide di far marciare le truppe con le vecchie insegne sabaude di colore azzurro, avviluppate però in sciarpe tricolori racimolate last minute. Finchè il 15 aprile 1848 Carlo Alberto decreta: “Volendo che la stessa bandiera, che qual simbolo dell’unione italiana sventola sulle schiere da noi guidate a liberare il sacro suolo d’Italia, sia inalberata sulle nostre navi…, sentito il parere del nostro Consiglio de’ Ministri, ordiniamo: le nostre navi da guerra e la navi della nostra marineria mercantile inalbereranno la bandiera tricolore italiana (verde, bianco e rosso). Con lo scudo di Savoia al centro… Carlo Alberto”.
Il 23 marzo 1849 le truppe sabaude sono sconfitte a Novara dagli austriaci del maresciallo Radetzky. Il Re abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il quale è subito alle prese con un grosso grattacapo: la pace con l’Austria. Fra le tante richieste di Radetzky c’è anche la soppressione del tricolore e il ritorno del Piemonte alla “illustre bandiera Savoina”. Ma il “Re Galantuomo”, in un’impennata di orgoglio, rifiuta: “Conserverò intatte le istituzioni che mio padre ha dato. Terrò alta e ferma la bandiera tricolore, simbolo della nazionalità italiana, che oggi è stata sconfitta, ma che un giorno trionferà”.