La Gazzetta dello Sport, 8 novembre 2015
Una vita alla Causio, tra Bearzot, Agnelli e Pertini
Franco Causio, partiamo dal soprannome. Tutti la chiamano Barone, nel libro si scopre che il primo appellativo è stato Brasil.
«Un segno del destino, in Brasile ho conosciuto Andreia, l’amore della mia vita. Brasil lo coniò Vladimiro Caminiti, grande giornalista di Tuttosport. “Camin” scriveva che avevo piedi brasiliani. A battezzarmi Barone un’altra bella penna, Fulvio Cinti della Stampa: “Per l’eleganza ricordi un baronetto”, diceva. Per tutti sono il Barone, però io mi sento molto Brasil».
Da bambino era milanista.
«Sì, col mito di Gianni Rivera e di Dino Sani. “Colpa” di mio padre Oronzo, che da Lecce una domenica mi portò a vedere un Bari-Milan. Al Mondiale del ’74, contro l’Argentina, sostituii proprio Rivera: l’ultima apparizione di Gianni in Nazionale, io che do il cambio all’idolo d’infanzia, la vita sa essere particolare. Da tempo, però, il mio cuore è bianconero. Alla Juve devo tutto e non sputerò mai nel piatto in cui ho mangiato».
Ma stava per passare al Torino...
«A metà degli anni Sessanta vado in prova al Toro. Gioco delle amichevoli nella squadra riserve, alloggio nel convitto di corso Vittorio. Vengo bocciato. “Bravo, ma gracile”, dicono. E sapete chi comunica la stroncatura? Enzo Bearzot, all’epoca vice di Nereo Rocco allenatore del Torino. Per anni a Enzo ho rinfacciato scherzosamente la cosa: “Lei non mi ha voluto al Toro!”. Lui rideva: “Io ti avrei preso, è stato Rocco a scartarti, il Paròn diceva che non avevi il fisico”. Meglio così, mi acquistò la Juve dopo un provino a Forlì, organizzato da un “certo” Luciano Moggi».
L’Avvocato Agnelli, Bearzot e Pertini. In ordine alfabetico i tre uomini più importanti della sua vita professionale.
«L’Avvocato mi voleva bene. Quando Boniperti mi impose di tagliare i capelli, per ripicca mi feci crescere i baffi, e l’Avvocato gli disse: “Boniperti, lasci stare Causio, che è forte”. Veniva nel ritiro di Villar Perosa. Mangiava con noi giocatori, di solito chiedeva due uova con scaglie di tartufo. Era Agnelli, ma non lo faceva pesare. Sapeva della mia passione per le auto e una volta provò a fregarmi con un’Abarth dal cambio automatico, ai tempi molto raro: “La provi, la provi”. Me la cavai perché ero amico del suo autista, che mi aveva spiegato tutto. Una sera mi invitò a casa sua con Haller e Altafini per vedere il film di Ciotti su Cruijff. L’Avvocato impazziva per l’olandese, se le frontiere non fossero state chiuse l’avrebbe portato a Torino. Agnelli telefonava all’alba: “Dormiva?”. E io: “Avvocato, prima sì, ora no”. Si parlava, voleva sapere tutto».
Bearzot?
«Il Vecio, o il Bea, come lo chiamavo io. Un secondo padre. La sua Italia del ’78 meritava il Mondiale, ma doveva vincere l’Argentina... Un Mondiale politico. Capivamo che qualcosa non andava, ovunque avevamo poliziotti alle costole, però non immaginavamo le torture, gli omicidi di Videla e compagnia. In quel Mondiale il Vecio commise l’unico errore “tecnico” nei miei confronti, mi sostituì all’intervallo di Italia-Olanda. Vincevamo 1-0, Bearzot era convinto di farcela e voleva risparmiarmi per la finale. Non osai dirgli nulla, perdemmo 2-1 e ciao. Pazienza, la perfezione non esiste. Quattro anni più tardi, prima di Spagna ’82, ero all’Udinese, avevo 33 anni. Il c.t. venne a parlarmi: “Franco, il titolare è Bruno Conti. Tu tieniti pronto, se Bruno non ingranerà il posto sarà di nuovo tuo. In ogni caso sarai fondamentale per lo spogliatoio”. Bruno ingranò. Io giocai il secondo tempo col Perù e nella finale coi tedeschi, a pochi attimi dalla fine, il Bea mi fece entrare per Altobelli. Fu il suo modo di dirmi grazie. Resterò per sempre uno dei ragazzi di Bearzot».
Pertini?
«Udine anni Ottanta, noi già campioni del mondo. Al campo dell’Udinese arriva una gazzella dei carabinieri. “Cerchiamo il signor Causio”. Per un attimo, brutti pensieri. Poi: “Venga con noi, il presidente Pertini vuole incontrarla”. Sollievo, gioia. Andiamo in Prefettura, il presidente – in visita nel Friuli – mi viene incontro: “Franco carissimo, come potevo dimenticarmi di te. Oggi niente allenamento, stai con me tutto il giorno”. Insieme e in giro dalla mattina alla sera, fantastico e indimenticabile. Pertini sarà per sempre il mio presidente».
Nel libro è molto riconoscente a un «quarto» uomo.
«Armando Picchi. Stiamo perdendo, sono un ragazzo sulla panchina della Juve. Picchi, l’allenatore, mi guarda: “Maestro, vai in campo, gioca come sai e vedrai che non uscirai più”. E poi: “Ricordati che Maestro io l’ho detto soltanto a Mario Corso”. Picchi, il libero della Grande Inter di Herrera, sarebbe diventato un tecnico formidabile, purtroppo se ne è andato troppo presto».
Maradona o Pelé?
«Sono Brasil, dovrei scegliere Pelé, ma Diego è stato unico. Dico Maradona».
Dietro Pelé e Maradona?
«Dei miei tempi, Cruijff, Platini e Zico sullo stesso piano».
Il giocatore più forte di oggi?
«Messi è l’unico in cui ritrovo certi colpi di Maradona».
Messi o Maradona?
«Diego resta inarrivabile».
Gli italiani più bravi?
«Negli ultimi vent’anni Baggio, Del Piero e Totti. Del Piero andavo a vederlo nel Padova da osservatore della Juve e facevo relazioni entusiastiche. Un giorno mi telefonano dalla sede: “Franco, il Milan vuole soffiarci questo giovane. Che cosa facciamo?”. E io: “Prendiamolo subito”. Poco dopo si gioca Udinese-Juve e porto Ale nel nostro ritiro, all’hotel Là di Moret. Presento Del Piero a Boniperti, il presidente lo scruta e che cosa gli dice? “Ragazzo, ti aspetto a Torino coi capelli tagliati”. Ma sì, dai, aveva ragione Boniperti: vincere è l’unica cosa che conta».